La casa di reclusione per il lavoro all'aperto "Bellaria"
LONATE POZZOLO (VARESE)
La Casa di Reclusione “Bellaria” nasce negli anni ’50 (forse 1954) come struttura da destinare a “risolvere” il cronico sovraffollamento del Carcere Giudiziario di S. Vittore. Come riportato da alcuni documenti reperiti in rete “Il progetto originario prevedeva la costruzione, in economia e con la sola mano d’opera dei detenuti, due padiglioni ad un solo piano, in grado di ospitare un centinaio di unità”. Il progetto era molto innovativo per il tempo considerando che “vigeva ancora il Regolamento degli Stabilimenti Penitenziari del 1931”. Pensare ”ad una struttura del genere poteva essere considerato una follia”. Quando il progetto prese il via “l’aeroporto internazionale della Malpensa (nota: come è conosciuto oggi) era ancora di là da essere concepito. Esisteva una cascina, chiamata appunto Malpensa, di proprietà della famosa famiglia Caproni”.
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale si inizia a parlare di questo progetto nell’ambito delle opere “richieste dal Comune di Lonate Pozzolo” a seguito della fine del conflitto. Come indicato infatti da L. Morsello “quel singolarissimo modello di carcere fu realizzato nelle superfici in cui trovavano posto le piste di lancio. La pista più lunga (m. 6 x 1.100) indicava approssimativamente il baricentro del nuovo carcere”. Dopo le prime opere fatte con manodopera dei detenuti, “venne progettato di costruire ben sette sezioni, indipendenti l’una dall’altra, di circa 60-65 posti singoli ciascuna”. Fu incaricato il Genio Civile, all’epoca unico organismo deputato agli interventi pubblici su beni demaniali e patrimoniali dello Stato, che “realizzò una sola sezione, per complessivi n. 64 posti. Gli altri padiglioni non vennero realizzati mai”. Il padiglione, come anche gli altri, “erano a celle singole, con bagni in comune, senza inferriate, finestre di legno, chiuse da persiane in legno alla fiorentina, che di notte venivano “assicurate” da un lucchetto di chiusura”.
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale si inizia a parlare di questo progetto nell’ambito delle opere “richieste dal Comune di Lonate Pozzolo” a seguito della fine del conflitto. Come indicato infatti da L. Morsello “quel singolarissimo modello di carcere fu realizzato nelle superfici in cui trovavano posto le piste di lancio. La pista più lunga (m. 6 x 1.100) indicava approssimativamente il baricentro del nuovo carcere”. Dopo le prime opere fatte con manodopera dei detenuti, “venne progettato di costruire ben sette sezioni, indipendenti l’una dall’altra, di circa 60-65 posti singoli ciascuna”. Fu incaricato il Genio Civile, all’epoca unico organismo deputato agli interventi pubblici su beni demaniali e patrimoniali dello Stato, che “realizzò una sola sezione, per complessivi n. 64 posti. Gli altri padiglioni non vennero realizzati mai”. Il padiglione, come anche gli altri, “erano a celle singole, con bagni in comune, senza inferriate, finestre di legno, chiuse da persiane in legno alla fiorentina, che di notte venivano “assicurate” da un lucchetto di chiusura”.
L’autore stesso riporta in dettaglio la struttura del carcere. “Vi era una zona detentiva, una dei servizi (direzione, alloggi demaniali, caserma e mensa agenti), una del tenimento agricolo, il quale era composto da:
• Una doppia stalla per i bovini (circa 60 mucche in batteria);
• Una seconda stalla per gli animali giovani (manzette e castrati);
• Una porcilaia per circa 50 maiali;
• Un padiglione per il ricovero delle macchine agricole;
• Un’officina per le piccole riparazioni e la manutenzione dei mezzi e strumenti agricoli;
• Un magazzino delle granaglie e dei mangimi per i bovini”.
Come in una azienda agricola, la struttura penitenziaria era circondata da un esteso terreno agricolo adibito alla produzione di mangimi per l’alimentazione degli animali allevati. Le coltivazioni erano quelle tipiche della zona, in particolare “si ricordano:
• La coltura del mais, a seminagione estiva (a 60-90-120 giorni di maturazione) con inizio ai primi di giugno. Per l’irrigazione in mancanza di precipitazioni naturali, si utilizzava un impianto di irrigazione sotto traccia, incassato nel terreno, che riceveva acqua estratta da un pozzo e da una stazione elettrica di pompaggio. Il mais veniva raccolto in parte in forma granulare e veniva inviato all’esterno per l’essiccazione dei chicchi, in parte per la produzione di foraggio (trinciato) per i bovini.
• Le c.d. “arido-colture”, per la seminagione dell’oietto (una graminacea a seminagione autunnale) utilizzate per la produzione dei farinacei per mangime e del fieno.
• L’impianto di prato polifita stabile e di erba medica stagionale con doppi e tripli raccolti nella stagione estiva”.
• Una doppia stalla per i bovini (circa 60 mucche in batteria);
• Una seconda stalla per gli animali giovani (manzette e castrati);
• Una porcilaia per circa 50 maiali;
• Un padiglione per il ricovero delle macchine agricole;
• Un’officina per le piccole riparazioni e la manutenzione dei mezzi e strumenti agricoli;
• Un magazzino delle granaglie e dei mangimi per i bovini”.
Come in una azienda agricola, la struttura penitenziaria era circondata da un esteso terreno agricolo adibito alla produzione di mangimi per l’alimentazione degli animali allevati. Le coltivazioni erano quelle tipiche della zona, in particolare “si ricordano:
• La coltura del mais, a seminagione estiva (a 60-90-120 giorni di maturazione) con inizio ai primi di giugno. Per l’irrigazione in mancanza di precipitazioni naturali, si utilizzava un impianto di irrigazione sotto traccia, incassato nel terreno, che riceveva acqua estratta da un pozzo e da una stazione elettrica di pompaggio. Il mais veniva raccolto in parte in forma granulare e veniva inviato all’esterno per l’essiccazione dei chicchi, in parte per la produzione di foraggio (trinciato) per i bovini.
• Le c.d. “arido-colture”, per la seminagione dell’oietto (una graminacea a seminagione autunnale) utilizzate per la produzione dei farinacei per mangime e del fieno.
• L’impianto di prato polifita stabile e di erba medica stagionale con doppi e tripli raccolti nella stagione estiva”.
Il terreno era “di tipo alluvionale e quindi sabbioso con ciottoli radi di piccolo calibro, inizialmente molto acido, con l’utilizzo sistematico di un fertilizzante polverulento le c.d. “scorie Thomas” era diventato un terreno privo di acidità, ideale per la coltivazione del mais”.
Si può considerare il Carcere Bellaria come il primo carcere “a basso indice di sicurezza” della storia delle carceri, almeno italiane, l’unico di questa tipologia. “Tutto il sedime del carcere, circa 350 ettari di terreno dei quali almeno 250 adibiti a coltivazioni, non era in alcun modo recintato: non esisteva muro di cinta né una rete di recinzione e nemmeno filo spinato per delimitare simbolicamente il limite invalicabile oltre il quale si realizzava il reato di evasione da parte dei detenuti assegnativi”. L’unico ostacolo frapposto fra la detenzione e la libertà era di natura psicologica, il reato di evasione implicava il ritorno in carcere. Per quegli “anni (si tratta degli anni 1950-1960) era una novità clamorosa, ma poco se non per nulla conosciuta dall’opinione pubblica”.
Poi negli anni 1970 subentrò “il fenomeno del terrorismo e quella struttura entrò nell’oblio più totale. Anche Renato Vallanzasca, oggi chiuso nel carcere di Milano - Opera, vi fu assegnato quando ancora era uno sconosciuto e giovane detenuto: naturalmente, evase. Il criterio di assegnazione prima del 1975 era quello dell’ammissione al lavoro all’aperto: i detenuti partivano la mattina da S. Vittore con scorta armata degli agenti di custodia (oggi Polizia Penitenziaria) ed autocarri dell’Amministrazione Penitenziaria, per rientrarvi la sera. Quando la nuova struttura fu operativa, il criterio di assegnazione era il fine pena, che non doveva essere superiore a diciotto mesi, e la buona condotta. Dal 1984 al 1988 dopo una profonda riorganizza è diventato, finalmente, produttivo”.
Il carcere era a ridosso “di un vicino già allora gigantesco e molto scomodo, che prendeva il nome di Malpensa. L’aeroporto internazionale aveva necessità di spazi “ed accarezzava da anni l’idea di fagocitarlo per utilizzarne il territorio, inglobandolo nel sedime aeroportuale”. Nel periodo, negli anni dal 1986 al 1989 - data di soppressione del carcere - vennero assegnati “solo tossicodipendenti sieropositivi all’HIV e/o All’HVC o in AIDS conclamato, malattie terribili appena scoperte”.
Sempre L. Morsello riporta il dissenso per “la scomparsa” della struttura. “La stessa dirigenza della SEA si offriva di costruire un altro carcere fotocopia, secondo i rilievi aerofotogrammetici già fatti per il progetto della GRANDE MALPENSA, replicandolo in un altro territorio demaniale, il c.d. “Campo della Promessa”, ( ... chiamato così da Gabriele D’Annunzio, aeroporto dal quale il poeta si involò per il celeberrimo raid su Vienna durante la I^ guerra mondiale). All’Autore. fu detto che così sarebbe stato fatto. In realtà così non accadde”.
Luigi Morsello conclude il suo racconto con una considerazione ed una domanda.”Adesso è tutto aeroporto internazionale, non c’è più alcuna traccia di quella splendida esperienza.Se ne è persa, probabilmente, anche la memoria. Ne è valsa la pena?”
Riferimento bibliografico.
La casa di reclusione per il lavoro all’aperto “Bellaria”. Lonate Pozzolo (Varese)
Luigi Morsello
Il carcere era a ridosso “di un vicino già allora gigantesco e molto scomodo, che prendeva il nome di Malpensa. L’aeroporto internazionale aveva necessità di spazi “ed accarezzava da anni l’idea di fagocitarlo per utilizzarne il territorio, inglobandolo nel sedime aeroportuale”. Nel periodo, negli anni dal 1986 al 1989 - data di soppressione del carcere - vennero assegnati “solo tossicodipendenti sieropositivi all’HIV e/o All’HVC o in AIDS conclamato, malattie terribili appena scoperte”.
Sempre L. Morsello riporta il dissenso per “la scomparsa” della struttura. “La stessa dirigenza della SEA si offriva di costruire un altro carcere fotocopia, secondo i rilievi aerofotogrammetici già fatti per il progetto della GRANDE MALPENSA, replicandolo in un altro territorio demaniale, il c.d. “Campo della Promessa”, ( ... chiamato così da Gabriele D’Annunzio, aeroporto dal quale il poeta si involò per il celeberrimo raid su Vienna durante la I^ guerra mondiale). All’Autore. fu detto che così sarebbe stato fatto. In realtà così non accadde”.
Luigi Morsello conclude il suo racconto con una considerazione ed una domanda.”Adesso è tutto aeroporto internazionale, non c’è più alcuna traccia di quella splendida esperienza.Se ne è persa, probabilmente, anche la memoria. Ne è valsa la pena?”
Riferimento bibliografico.
La casa di reclusione per il lavoro all’aperto “Bellaria”. Lonate Pozzolo (Varese)
Luigi Morsello