L'avventura Nosatese del Parroco Don Eugenio Sironi
di Paolo Mira e Patrizia Morbidelli
di Paolo Mira e Patrizia Morbidelli
Siamo a Nosate nel 1842, in paese entra un nuovo parroco, è don Eugenio Sironi. È un giovane milanese, figlio di Dionigi, un rigattiere, e della sua seconda moglie, Innocenta Dell’Oro, figlia di un negoziante di calce. Non è figlio di gente ricca, ma è sicuramente benestante; Eugenio è un giovane colto e, prima di divenire parroco di Nosate, viene incaricato della cura delle anime di un paesino della Valsassina, Cremeno. Dal 1834, invece, insegna alla scuola maschile, che proprio in quegli anni veniva istituita ad Albese, pieve di Incino, presso Como. Ma l’arcivescovo di Milano stava pensando che per lui fosse giunto il momento di avere una parrocchia ed ecco iniziare, per il 36enne Eugenio, l’avventura nosatese.
Così lo stesso don Sironi scrive, sul “Registro dei Legati”: “Eugenio Giovanni Antonio dei furono Dionigi Sironi ed Innocenta Dell’Oro nato il 30 dicembre 1806 sotto la parrocchia del Carmine in Milano, fu ordinato col 5 Giugno 1830. Col giorno 15 fu destinato per Coadjutore di Cremeno in Valsassina residente nella frazione di Maggio, dove si portò col 20 Luglio 1830 ed ivi dimorò fino al 29 Aprile 1834, da dove venne per nuovo ordine di S. Em. L’Arcivescovo traslocato in qualità ancora di Coadjutore ad Albese, Pieve di Incino. Col 3 marzo 1842, venne nominato a Parroco di Nosate sua disgrazia, ritenendo L’arcivescovo di conferire un beneficio più vistoso di quello che si aveva scelto, caduto in inganno dalle asserzioni dell’antecessore Ramponi di buona memoria”.
La vita in paese subito si dimostra tutt’altro che semplice. Eugenio viene da Milano, città che in quegli anni è tra le più ricche e più colte d’Europa: il governo austriaco non porta solo dominio e oppressione, sviluppa una politica di alfabetizzazione che il Regno di Piemonte le invidia: un bambino su 13, proveniente dai ceti più poveri, viene istruito, a Torino sono 1 su 60 e a Napoli 1 su 100.
Sono gli anni in cui si comincia a conoscere la musica di Verdi, l’epoca in cui i cittadini della città vera e propria e dei Corpi Santi, anche se in maniera minore, cominciano a sviluppare piccole attività artigiane e commerciali, favorite anche dall’essere Lombardo-Veneto. Nel corso di quasi tutto il XIX secolo Milano pubblicherà un Almanacco o Guida, che riporta indicazione circa le professioni esercitate con nome, cognome e indirizzo del cittadino in questione.
I chierici, in quest’epoca, si formano nei seminari secondo la riorganizzazione degli studi e, più in generale, del Clero voluta dal cardinale Carlo Gaetano conte di Gaisruck, che prese possesso della Diocesi di Milano nel 1818, dopo ben otto anni di sede vacante, dopo la morte, cioè, del cardinale Gian Battista Caprara, avvenuta a Parigi nel 1810; per la verità i milanesi non sperimentavano la presenza del vescovo in città da parecchi anni visto che il Caprara era venuto a Milano una sola volta nel 1805, in occasione dell’incoronazione di Napoleone Bonaparte. “L’impianto borromaico, l’intervento giuseppino, gli sconvolgimenti dell’egemonia francese - scriveva lo storico Giorgio Rumi - non furono senza effetti nella Restaurazione, che vide il ritorno della casa d’Austria. I problemi maggiori della diocesi milanese erano la scarsità ed eterogeneità del clero, il disordine amministrativo, l’incertezza disciplinare e culturale. Tutto il venerando edificio della Chiesa milanese andava sistemato e adeguato alle necessità spirituali del milione di fedeli; e Gaisruck tentò una via sua, cercando di favorire l’elevazione culturale del clero, non senza correggere le deviazioni dottrinali. Desiderava buoni preti - ecco allora la riforma degli studi nei seminari - aiutò la costituzione di congregazioni religiose socialmente utili, voleva una liturgia semplice e combatté tante forme dell’antica pietà popolare (a volte sconfinanti in forme di pura superstizione)”. Un suo limite, forse, pur rispettando Roma, fu quello di far vagliare ogni decisione da Vienna; il suo progetto calava troppo dall’alto, in una realtà che aveva solo “il diritto e il dovere di adeguarsi”.
Ma è, comunque, in questo clima che si formano personalità del calibro di don Eugenio Sironi, di don Rinaldo Anelli di Bernate Ticino e soprattutto del coetaneo don Pietro Bossi di Turbigo. Personalità giunte nei rispettivi paesi in epoca di restaurazione, che vissero i moti rivoluzionari delle guerre d’Indipendenza, favorirono in prima persona l’indipendenza italiana, salutarono con speranza l’Unità d’Italia, vissero con difficoltà i primi anni del Regno d’Italia e morirono con grande amarezza alla fine del XIX secolo.
Ma tornando alla prima metà dell’Ottocento, Milano è una città in cui è possibile vivere, e vivere piuttosto bene. Nosate, invece, no! Come tutti i paesi della Provincia è un borgo agricolo di poche decine di anime, sostentato dal lavoro duro e poco gratificante della terra. Terra che non è loro, ma di pochi proprietari, i quali concedono ai “fittabili” lotti di terreno che saranno arati, seminati, curati dai “terrieri”, cioè coloro che lavorano tanto e guadagnano davvero poco. Proprio a loro andrà tutto l’affetto di don Eugenio e saranno gli unici che gli staranno vicino anche quando il suo carattere risoluto e forse anche rissoso, lo metterà in aperto conflitto con le autorità del paese e addirittura con la casa nobile, il conte Giberto Borromeo, padrone di Nosate.
Don Sironi ha doveri e diritti. Ha il dovere di essere un buon pastore per i suoi parrocchiani e cercherà di fare tutto il possibile per la sua gente; organizzerà, ad esempio, le Sante Missioni, pagando di tasca propria l’offerta ai Padri Oblati di Rho e per la gran festa che seguirà. Annota con grande diligenza - grazie alla quale noi oggi riusciamo a ricostruire questa storia - gli avvenimenti del paese: nati, morti, matrimoni, fatti tristi ed edificanti. Nonostante non si possa dire avesse simpatia per la nobiltà nosatese, registrerà con amarezza la morte della contessa Livia Litta Borromeo, avvenuta a Milano di parto e che, a Nosate, il marito non farà neppure ricordare con una messa. “Così pure in questo giorno, 7 Luglio 1844, festa della Madonna del Carmine - scrive - morì di parto la Contessa Livia Borromeo-Litta padrona di Nosate, e non si fece alcun uficio, anzi neppure una messa. Ad eternam memoriam”.
Ha il dovere di essere un custode accurato per la sua chiesa e don Eugenio non esiterà a sopportare offese e violenze fisiche per non lasciar derubare la parrocchia di ciò che le appartiene e porterà avanti, per anni, la sua crociata per conservare alla Comunità di Nosate, la Chiesa di Santa Maria in Binda. Tutto questo perché il conte Borromeo, faceva sapere che Santa Maria in Binda non era una chiesa sussidiaria, bensì un oratorio privato della famiglia Borromeo. L’informazione giunge per voce dei suoi amministratori e di una figura che sarà la spina nel fianco di tutta la vita nosatese del nostro parroco: il camparo Pietro Torno che, fu anche Sindaco di Nosate dal 1860 al 1865.
Uno dei tanti esempi delle vessazioni che il povero parroco deve subire dal camparo Torno è un episodio di maldicenza: “1867 - Il ragioniere Sala fece avvertito il Parroco che chi parlava male di lui presso i Signori e che lo poneva in cattivo aspetto era il fattore (sempre il Torno). Il Parroco tosto nel giorno dopo ringraziò il fattore per tale regalo, il quale non poté negare, ma che sortì in un’esclamazione contro il Ragioniere”.
Don Sironi non aveva certo una personalità pacifica e accomodante, anzi, da ogni foglio dei registri parrocchiali emerge una figura sanguigna, a volte sarcastica e pungente. Non perde occasione per tramandare ai “Reverendi successori”, per i quali registra i fatti, tutto quanto gli capita.
“1848 (tempo di guerra) - Il parroco ottenne per ben quatto volte la libertà ad individui arrestati per contrabbando e principalmente del Custode della Camera che ingrato e ribelle alla vita risparmiata dietro la carità del Parroco Sironi rese per cambio gravi offese”.
Ma, nonostante tutto, numerosi sono stati gli interventi a favore della chiesa e del paese. Informa i successori di aver dotato la chiesa e la canonica di “cannoni” (le grondaie) per evitare che l’umidità corrodesse completamente i muri e di aver ristrutturato casa e chiesa che, al suo arrivo. “Nell’anno 1862 il parroco Sironi pose anche il canone di ferro al tetto verso il giardino e coll’anno 1880 pose il canone di ferro al tetto verso corte e ciò a di lui proprio carico. La chiesa si può dirla al presente e chiamarla un duomo in confronto al giorno ed al tempo in cui il parroco Sironi si portò alla residenza, per cui a merito si potevano, la casa e la chiesa, chiamare due stalle”.
Parla poi della restauro della nicchia e della festa della Madonna del Carmine e lascia una memoria scritta, o meglio un “Avviso Sacro”, pregando i reverendi successori di conservarlo. “1844 - Col giorno 7 Luglio fù portata l’Effigie di M. V. colla pompa possibile, come si legge nei registri battesimali, e altro luogo. La chiesa e la piazza fù riccamente adobbata. Messa e Vespero con musica scelta di Milano. Monsignor Ramponi funzionò e celebrò pontificalmente. La maggior parte della spesa fù a carico del Parroco Sironi”. E ancora: “La festa fu solennissima con l'intervento di numerose persone anche di altri paesi come: Cuggiono, Buscate, Lonate, Vanzaghello, Castano, Turbigo; tutta la piazza era gremita di gente, carrozze e carretti. Alla cerimonia partecipò anche Mons. Ramponi, precedente Parroco di Nosate. Alla fine del Vespero quando il Simulacro (commissionato nel 1777 dall’allora parroco Pietro Reina al noto scultore milanese Giuseppe Antignati) venne portato fuori dalla Chiesa incominciò a cadere qualche goccia di pioggia che si trasformò al termine della Processione in un acquazzone che ebbe termine solamente il giorno successivo. I presenti acclamarono: “Miracolo! Evviva la Madonna di Nosate”, essendo un periodo di notevole siccità. Quell’anno il raccolto fu abbondante”.
Un altro intervento, dopo quello per l’organo, è la realizzazione del nuovo concerto di campane. Anche qui non perde l’occasione di togliersi qualche sassolino... “1850 - Nuovo concerto di campane. La Casa Borromea con belle maniere di rispondere si rifiutò al concorso di tanta giusta necessità. Ciò servì di memoria e di norma quando si ha a che fare colle Case nobili amministrate da soggetti interessati. Si cominciò a caluniare e vessare il parroco; la Sig.ra Casa vidde bene che il Superiore Ecclesiastico reintegrò il Parroco del suo onore e stima per le calunie ed accuse ingiuste innoltrate; in seguitò toccò con mano da dove sorgeva il male, ma pure non diede alcuna soddisfazione al Parroco, e si continua tuttora collo stesso metodo di agire, e son sicuro che non passeranno alquanti anni, che succederà qualche cosa di novo, perché sebbene gli agenti son cambiati, il carattere però e l’indole è sempre quella”.
Ha il dovere di essere un custode accurato per la sua chiesa e don Eugenio non esiterà a sopportare offese e violenze fisiche per non lasciar derubare la parrocchia di ciò che le appartiene e porterà avanti, per anni, la sua crociata per conservare alla Comunità di Nosate, la Chiesa di Santa Maria in Binda. Tutto questo perché il conte Borromeo, faceva sapere che Santa Maria in Binda non era una chiesa sussidiaria, bensì un oratorio privato della famiglia Borromeo. L’informazione giunge per voce dei suoi amministratori e di una figura che sarà la spina nel fianco di tutta la vita nosatese del nostro parroco: il camparo Pietro Torno che, fu anche Sindaco di Nosate dal 1860 al 1865.
Uno dei tanti esempi delle vessazioni che il povero parroco deve subire dal camparo Torno è un episodio di maldicenza: “1867 - Il ragioniere Sala fece avvertito il Parroco che chi parlava male di lui presso i Signori e che lo poneva in cattivo aspetto era il fattore (sempre il Torno). Il Parroco tosto nel giorno dopo ringraziò il fattore per tale regalo, il quale non poté negare, ma che sortì in un’esclamazione contro il Ragioniere”.
Don Sironi non aveva certo una personalità pacifica e accomodante, anzi, da ogni foglio dei registri parrocchiali emerge una figura sanguigna, a volte sarcastica e pungente. Non perde occasione per tramandare ai “Reverendi successori”, per i quali registra i fatti, tutto quanto gli capita.
“1848 (tempo di guerra) - Il parroco ottenne per ben quatto volte la libertà ad individui arrestati per contrabbando e principalmente del Custode della Camera che ingrato e ribelle alla vita risparmiata dietro la carità del Parroco Sironi rese per cambio gravi offese”.
Ma, nonostante tutto, numerosi sono stati gli interventi a favore della chiesa e del paese. Informa i successori di aver dotato la chiesa e la canonica di “cannoni” (le grondaie) per evitare che l’umidità corrodesse completamente i muri e di aver ristrutturato casa e chiesa che, al suo arrivo. “Nell’anno 1862 il parroco Sironi pose anche il canone di ferro al tetto verso il giardino e coll’anno 1880 pose il canone di ferro al tetto verso corte e ciò a di lui proprio carico. La chiesa si può dirla al presente e chiamarla un duomo in confronto al giorno ed al tempo in cui il parroco Sironi si portò alla residenza, per cui a merito si potevano, la casa e la chiesa, chiamare due stalle”.
Parla poi della restauro della nicchia e della festa della Madonna del Carmine e lascia una memoria scritta, o meglio un “Avviso Sacro”, pregando i reverendi successori di conservarlo. “1844 - Col giorno 7 Luglio fù portata l’Effigie di M. V. colla pompa possibile, come si legge nei registri battesimali, e altro luogo. La chiesa e la piazza fù riccamente adobbata. Messa e Vespero con musica scelta di Milano. Monsignor Ramponi funzionò e celebrò pontificalmente. La maggior parte della spesa fù a carico del Parroco Sironi”. E ancora: “La festa fu solennissima con l'intervento di numerose persone anche di altri paesi come: Cuggiono, Buscate, Lonate, Vanzaghello, Castano, Turbigo; tutta la piazza era gremita di gente, carrozze e carretti. Alla cerimonia partecipò anche Mons. Ramponi, precedente Parroco di Nosate. Alla fine del Vespero quando il Simulacro (commissionato nel 1777 dall’allora parroco Pietro Reina al noto scultore milanese Giuseppe Antignati) venne portato fuori dalla Chiesa incominciò a cadere qualche goccia di pioggia che si trasformò al termine della Processione in un acquazzone che ebbe termine solamente il giorno successivo. I presenti acclamarono: “Miracolo! Evviva la Madonna di Nosate”, essendo un periodo di notevole siccità. Quell’anno il raccolto fu abbondante”.
Un altro intervento, dopo quello per l’organo, è la realizzazione del nuovo concerto di campane. Anche qui non perde l’occasione di togliersi qualche sassolino... “1850 - Nuovo concerto di campane. La Casa Borromea con belle maniere di rispondere si rifiutò al concorso di tanta giusta necessità. Ciò servì di memoria e di norma quando si ha a che fare colle Case nobili amministrate da soggetti interessati. Si cominciò a caluniare e vessare il parroco; la Sig.ra Casa vidde bene che il Superiore Ecclesiastico reintegrò il Parroco del suo onore e stima per le calunie ed accuse ingiuste innoltrate; in seguitò toccò con mano da dove sorgeva il male, ma pure non diede alcuna soddisfazione al Parroco, e si continua tuttora collo stesso metodo di agire, e son sicuro che non passeranno alquanti anni, che succederà qualche cosa di novo, perché sebbene gli agenti son cambiati, il carattere però e l’indole è sempre quella”.
Ma vi è anche un interessamento per la storia del paese con la ricerca e la riscoperta della figura del patrono San Guniforte; si mette in contatto con la chiesa dei Santi Gervaso e Protaso di Pavia, dove si conserva il corpo del santo... scrive, incontra persone, inoltra richieste... tutto per dare lustro al paese. “1886 - La vita di San Guniforte venne ricavata e stampata a cura del detto Parroco Sironi, il quale poi ottenne una reliquia che la pose in urna di vetro, entro la Cappella del Crocifisso, anche questa eretta in detto nome avendo acquistato il Crocifisso, e le due immagini come si scorge in detta cappella”. Povera vita! scriveva don Giuseppe Saibene in pastello blu alla fine di questa pagina... quasi a voler sottolineare quella pietas cristiana per una povera vita, appunto, spesa totalmente e con generosità per la sua comunità, finendo molto spesso per non essere nemmeno capito. Certamente è stata la figura di don Giuseppe a ispirare Guareschi per il suo celebre personaggio di don Camillo; ma sicuramente nelle sue visite nosatesi, don Giuseppe ebbe l’occasione di fare leggere a Guareschi molti degli appunti di don Sironi.
Ma don Eugenio - dicevano - ha anche dei diritti: ha il diritto di ricevere la decima che, nei nostri paesi, consisteva nella consegna di un certo numero di “gallette”, cioè il bozzolo vuoto del baco da seta dopo il soffocamento della larva. Con la vendita, il parroco avrebbe ottenuto il danaro per la sussistenza sua e della chiesa. Riportiamo alcune degli appunti più coloriti in cui don Eugenio lamenta il mancato pagamento della decima:
“1842 - La Sig.ra Casa Borromeo col 1840 proibì ai coloni l’offerta della galletta alla Chiesa; ed il parroco presentaneo fece osservare alla medesima questa azione non essere onorevole a Lei e di danno alla Chiesa. A cui si rispose che si proibì perché nulla mai si vedeva in Chiesa ed i coloni si lagnavano a fronte della generosa offerta che si faceva, e che però si avrebbe pensato a lasciare caminare la cosa come prima. Ma però si dubita, giacché le innovazioni difficilmente si cambiano”.
“1846 - I fittabili contro i patti d’investitura, contro le promesse fatte al Parroco in persona cominciarono ad offrire in denaro per la galletta, invece del genere, dando quel che credevano e non quel che dovevano, ponendo a conto la foglia comprata. La Fabbriceria presentò la cosa alla Casa, la quale diede nessuna risposta”.
“1849 - Il parroco scrisse fortemente allo studio Borromeo che i fittabili negavano di dare l’offerta della galletta alla chiesa, per cui spedito in Nosate il ragioniere, e si ricevette l’offerta di due anni scorsi in ragione di £ 100 di Milano per anno, e non più; ma pazienza il Signore provvederà”.
“1854 - I fittabili anche quest’anno rubarono alla Chiesa la dovuta offerta della galletta, e non sono che per la chiesa e per la povera gente lo scandalo e la rovina. Di pietà e di religione sono affatto privi e non agiscono che per soperchiare, dominare e opprimere senza che la Casa pensi menomanente al più piccolo riparo. Quindi vi vuole una prudenza soma, una pazienza di Giobbe, e una continua avvedutezza onde, se non altro, poter vivere un po’ tranquillamente”.
“1855 - In quest’anno i fittabili con uno scritto si sono rifiutati di fare l’offerta della galletta tanto per ora che per l’avvenire... Tal scritto si presentò alla Casa ma non si ricevette soddisfazione. Iddio solo sarà il giudice”.
“1859 - A fronte anche della piccola raccolta di gallette i signori fittabili offrirono un bel nulla... sempre coerenti con se stessi, portando con loro il giudizio di Dio”.
Ma i fittabili rifiutano regolarmente di pagare il dovuto e, quando si devono eseguire lavori particolari per la chiesa a cui tutti sono chiamati a contribuire, solo i terrieri, i poveri contadini, dando quanto possono, privandosi a volte del necessario per sopravvivere, e sono tempi duri; molti adulti muoiono di pellagra e i bambini di consunzione.
Nella mente di don Eugenio però le sue sventure hanno nomi e cognomi: conte Giberto Borromeo e l’odiato Pietro Torno, camparo e fido uomo della casa Borromeo. Come abbiamo detto don Eugenio ha carattere irascibile, non sopporta facilmente le vessazioni e i soprusi di cui è vittima: ha rispetto per la nobiltà e forse un timore legato a un antico retaggio secondo il quale la nobiltà scendeva dalla volontà di Dio. Si limita a scrivere “Cave, cave a nobilitate” (Attenti, attenti alla nobiltà), ma contro il Torno scaglia addirittura maledizioni e anatemi, arrivando a scrivere “Maledictus homo, ille!”. Non solo contro di lui, ma anche contro la sua famiglia don Eugenio invia maledizioni e avvertimenti ai successori.
“1881 - Col giorno 24 Luglio 1881 il Sig. Chierico Pollenghi-Torno nel mentre che il Parroco si parava alla messa, essendo domenica, rispose al medesimo Parroco con insolenza unica intollerabile, ed ardenza tale da far meravigliare perfino al sagrista. E ciò avvenne per una dimanda rivolta allo stesso chierico dal parroco fatta con tutta la bonarietà. Serva di norma a tutti i miei successori, rammentando essere costui sortito dalla famiglia Torno e ciò basta. Maledizione!”.
Si può immaginare la reazione quando il conte, per bocca del camparo Torno, gli fa sapere che Santa Maria in Binda e quindi la relativa cassetta delle elemosine deve essere gestita dalla casa nobile. Don Eugenio la chiude chiave e loro la fanno strappare. Il pover’uomo si rivolge allora, alle alte sfere ecclesiastiche, ma il conte si chiama Borromeo e, dopo lusinghe e promesse, non si ottengono risultati. A ragione don Eugenio sostiene che la chiesa fosse pubblica, nei secoli precedenti risultavano dai registri alcune sepolture di gente comune, e ciò non sarebbe stato consentito se la chiesa fosse stata un oratorio privato. Durante i restauri dell’affresco della parete di fondo, mentre si era portato a controllare i lavori, don Sironi viene raggiunto dal Torno che lo minaccia e con una spinta lo butta a terra. Il poverino si sente solo e vessato, corre in canonica e registra concitato il fatto. La sua rabbia e la sua disperazione sono davvero grandi e forse, nessuno le conosce. Don Eugenio affida alle pagine dei registri tutte le sue amarezze. Molti dei suoi appunti si sono conservati: notizie, atti di cattiveria, promesse non mantenute. In momenti di rabbia risponde con anatemi che ancora oggi campeggiano sulle pagine, altre volte si pente di ciò che scrive e copre con l’inchiostro lo scritto, addirittura incollando sopra altri pezzi di carta.
Spesso la tentazione di eliminare i ripensamenti di don Eugenio è stata grande come pure la curiosità di vedere cosa avesse scritto di così grave da non poter essere letto dai “successori” a cui tutti gli scritti erano destinati. Ma ciò non ci è sembrato corretto, non ci siamo sentiti autorizzati a violare un segreto che don Sironi porta con sé da 150 anni e abbiamo lasciato tutto come lui ha voluto con la speranza che anche altre persone che leggeranno questi scritti abbiano lo stesso rispetto.
Don Eugenio morirà il 18 febbraio 1890 di sincope; sul libro dei Legati è registrata un’ultima messa celebrata il primo febbraio, mentre l’ultimo battesimo è del giorno 8 febbraio. Sarà sepolto nel vecchio cimitero di Nosate. Oggi i suoi resti riposano nella cappella centrale del nuovo cimitero e una lapide ne fa perenne memoria. Nella stessa cappella è stata posta anche la lapide fortunosamente rinvenuta nel vecchio cimitero e appartenuta alla fedele “perpetua” Maria Beretta, morta a Nosate il 4 gennaio 1861, che lo aveva seguito da Albese e servito con dedizione per molti anni.
Abbiamo pensato a questo scritto come un tributo che il paese e la comunità pastorale devono a un uomo che, in vita, fu compreso solo dai più umili a cui prodigò cure e per i quali non ebbe paura di rimboccarsi le maniche per domare incendi o salvare le bestie dalle inondazioni.
Bibliografia
·PAOLO MIRA - PATRIZIA MORBIDELLI, La straordinaria figura di Don Sironi, parroco di Nosate, in “Tesori Nascosti 2008-2009”, Polo Culturale del Castanese e Raccolto edizioni, Milano 2010, pp. 48-57.
·PAOLO MIRA - PATRIZIA MORBIDELLI, Don Sironi parla della chiesa della Madonna in Binda, in “Agorà”, anno 0, numero 0, dicembre 1994, e anno I, numero 4, aprile 1995.
·PAOLO MIRA, La parrocchia di San Guniforte nel 1753, in “Agorà”, anno II, numero 9, settembre 1996.
·PAOLO MIRA, Nosate: La “guerra” di don Eugenio Sironi, in “Luce” del 5-9-2004.
·GIUSEPPE LEONI - PAOLO MIRA - PATRIZIA MORBIDELLI - GANPAOLO CISOTTO, Nosate. La storia millenaria di un piccolo paese della riva sinistra del Ticino, in “Contrade nostre”, n° 48, 2004.
·MARCO PIPPIONE, L’età di Gaisruck, Ned, Milano 1984.