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di Paolo Mira
editing Roberto Bottiani
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Le Origini
Alla fine del Duecento Turbigo era un piccolo borgo nel quale vivevano solo poche decine di persone ma già era attestata la presenza di due chiese. Goffredo da Bussero, infatti, redigendo il suo Liber Notitiae Sanctorum Mediolani, un inventario delle chiese e degli altari presenti nella diocesi di Milano ricorda che in plebe dairago loco turbigi sorgevano l’ecclesia sancte marie e l’ecclesia sancti damiani. I due oratori, non più esistenti, avevano però la stessa collocazione delle due chiese attuali: Santa Maria nei pressi del castello era utilizzata dagli abitanti della parte “superiore” del paese, mentre San Damiano serviva per quelli di Turbigo “inferiore”.
Ponendo l’attenzione sull’oratorio di Santa Maria, che alla fine del Quattrocento avrebbe ottenuto la dignità di chiesa parrocchiale, è possibile affermare che la struttura architettonica rimase pressoché immutata per alcuni secoli. Non si hanno, infatti, notizie di lavori compiuti sull’edificio, vista la situazione che trovò il parroco Colombano Baroffio, giunto in paese il 10 aprile 1568. In una dettagliata descrizione il sacerdote delinea condizioni a dir poco disastrose: “La chiesa è piccola, anzi multum parva, piccolissima - scriveva don Colombano - minaccia in parte di cadere e non può contenere, non dico tutto il popolo di Turbigo, ma nemmeno una parte rilevante di esso.
Alla fine del Duecento Turbigo era un piccolo borgo nel quale vivevano solo poche decine di persone ma già era attestata la presenza di due chiese. Goffredo da Bussero, infatti, redigendo il suo Liber Notitiae Sanctorum Mediolani, un inventario delle chiese e degli altari presenti nella diocesi di Milano ricorda che in plebe dairago loco turbigi sorgevano l’ecclesia sancte marie e l’ecclesia sancti damiani. I due oratori, non più esistenti, avevano però la stessa collocazione delle due chiese attuali: Santa Maria nei pressi del castello era utilizzata dagli abitanti della parte “superiore” del paese, mentre San Damiano serviva per quelli di Turbigo “inferiore”.
Ponendo l’attenzione sull’oratorio di Santa Maria, che alla fine del Quattrocento avrebbe ottenuto la dignità di chiesa parrocchiale, è possibile affermare che la struttura architettonica rimase pressoché immutata per alcuni secoli. Non si hanno, infatti, notizie di lavori compiuti sull’edificio, vista la situazione che trovò il parroco Colombano Baroffio, giunto in paese il 10 aprile 1568. In una dettagliata descrizione il sacerdote delinea condizioni a dir poco disastrose: “La chiesa è piccola, anzi multum parva, piccolissima - scriveva don Colombano - minaccia in parte di cadere e non può contenere, non dico tutto il popolo di Turbigo, ma nemmeno una parte rilevante di esso.

É necessario, quindi, ampliare la chiesa e restaurarla, ma per fare tutto ciò ci vogliono i soldi e questi sono scarsi sia da parte del rettore, sia da parte del popolo, il quale sarebbe disposto a contribuire a condizione che anche il rettore impiegasse i soldi suoi”. Se la chiesa è in condizione da essere insufficiente alle necessità e alle celebrazioni liturgiche, la vicina sacrestia non è da meno e la casa parrocchiale ruinam minatur nec est capax pro habitatione (minaccia di cadere e non è idonea come abitazione). Per far fronte a queste spese il parroco decise di vendere alcuni terreni del beneficio parrocchiale; con il ricavato avrebbe potuto liquidare un vecchio debito che la parrocchia aveva contratto con alcuni affittuari e, con i soldi rimanenti, mettere mano alla sistemazione degli edifici parrocchiali. Don Colombano riuscì nel suo intento e dalle relazioni delle Visite pastorali compiute da San Carlo Borromeo nel 1568, 1573 e 1584 si apprende che la situazione era decisamente migliorata: la chiesa continuava a essere di modeste dimensioni, ma aveva ormai i requisiti minimi per una parrocchiale. L’edificio, alto 13 cubiti, lungo 45 e largo 18, era soffittato e illuminato da tre finestre rivolte a mezzogiorno e un oculo in facciata; il presbiterio aveva una copertura a volta e da esso si accedeva alla sacrestia munita di lavabo. Un piccolo campanile con due campane era addossato alla controfacciata, dove trovava posto anche il fonte battesimale; sempre sul lato sinistro dell’edificio, in prossimità del presbiterio, si trovava una cappella minore dotata di un piccolo altare.
Una svolta decisiva per lo sviluppo della parrocchia e della sua chiesa si ebbe senza dubbio grazie all’interessamento del cardinale turbighese Flaminio Piatti (1550-1613) che, oltre all’invio da Roma di preziose reliquie (tra cui il corpo di Santa Felicita), fece addirittura realizzare un dipinto raffigurante San Diego da inviare alla chiesa di Turbigo, dove si sarebbe dovuto costruire un altare, come voto del porporato al santo. Si narra, infatti, che il cardinale, inviato in qualità di delegato apostolico in Spagna per assumere prove valide per la canonizzazione di San Diego, viaggiava a cavallo con il seguito di un domestico. Mentre si trovava sulle Alpi fu sorpreso da un fortissimo temporale. I tuoni e i fulmini spaventarono il cavallo, il quale, perduto il passo, cadde per la china del monte trascinando il cardinale. In quel momento il porporato invocò il santo e subito il cavallo “si impennò e si rizzò sulle zampe” permettendo al cardinale di liberarsi e quindi, aiutato dal servo, di rimettersi sano e salvo in viaggio. Flaminio lo ritenne un fatto prodigioso e per questa ragione, tornato a Roma, commissionò prontamente la tela ancora oggi conservata a Turbigo. L’altare di San Diego fu realizzato e il conte Lodovico Piatti, nipote del cardinale, vi istituì un Legato di messa quotidiana con testamento del 1 agosto 1689 e con una dote di 362 lire annue.
Una svolta decisiva per lo sviluppo della parrocchia e della sua chiesa si ebbe senza dubbio grazie all’interessamento del cardinale turbighese Flaminio Piatti (1550-1613) che, oltre all’invio da Roma di preziose reliquie (tra cui il corpo di Santa Felicita), fece addirittura realizzare un dipinto raffigurante San Diego da inviare alla chiesa di Turbigo, dove si sarebbe dovuto costruire un altare, come voto del porporato al santo. Si narra, infatti, che il cardinale, inviato in qualità di delegato apostolico in Spagna per assumere prove valide per la canonizzazione di San Diego, viaggiava a cavallo con il seguito di un domestico. Mentre si trovava sulle Alpi fu sorpreso da un fortissimo temporale. I tuoni e i fulmini spaventarono il cavallo, il quale, perduto il passo, cadde per la china del monte trascinando il cardinale. In quel momento il porporato invocò il santo e subito il cavallo “si impennò e si rizzò sulle zampe” permettendo al cardinale di liberarsi e quindi, aiutato dal servo, di rimettersi sano e salvo in viaggio. Flaminio lo ritenne un fatto prodigioso e per questa ragione, tornato a Roma, commissionò prontamente la tela ancora oggi conservata a Turbigo. L’altare di San Diego fu realizzato e il conte Lodovico Piatti, nipote del cardinale, vi istituì un Legato di messa quotidiana con testamento del 1 agosto 1689 e con una dote di 362 lire annue.
Nel 1616 veniva nominato parroco Giovanni Paolo Butero che, insieme a fratello Melchiorre, tanto si prodigò per la chiesa di Turbigo. Pur vivendo in anni di stenti dovuti alla pestilenza, alla guerra e alla fame, riuscì a ristrutturare la Confraternita del Santo Rosario, erigendo all’interno della chiesa parrocchiale anche una piccola cappella dedicata a questo titolo di Maria. Nella bolla di indizione vi era anche la clausola di apporre le immagini di San Domenico e dei quindici Misteri del Rosario; condizione realizzata solo nel 1854 dal parroco Pietro Bossi che ne incaricò il pittore Giovanni Cozzi di Inveruno. Il dipinto raffigurante il Mistero della Crocifissione di Gesù è ancora oggi visibile in chiesa parrocchiale appeso alla parete del pulpito sinistro.
Senza ulteriori trasformazioni si chiudeva il XVII e si apriva il XVIII secolo ma l’edificio, la cui struttura architettonica risaliva al Quattrocento ed era stata solo in parte risistemata dal parroco Colombano a metà del Cinquecento, iniziava a subire l’effetto del tempo. In concomitanza di ciò, il notevole aumento della popolazione registrato in paese all’inizio del Settecento aveva spinto il nuovo parroco Gregorio Marzorati a prendere in considerazione l’idea di un radicale ampliamento della chiesa parrocchiale. I lavori iniziarono nel 1728 con l’allargamento del vecchio edificio nella parte di tramontana e con l’atterramento di parte della casa parrocchiale. Per la verità l’abbattimento riguardò l’intera navata centrale con le cappelle di San Diego e della Madonna del Rosario e la facciata della vecchia chiesa. Nel 1743 moriva il parroco Marzorati e i lavori, proseguiti sotto il parroco Giovanni Battista Pansecco, si conclusero definitivamente solo nel 1762 con l’arrivo di don Carlo Michele Galbussera. Uomo assai intraprendente come si evince dai numerosi documenti d’archivio che lo riguardano, don Galbussera prima ancora di portare a terminare la chiesa parrocchiale aveva fatto realizzare l’altare in onore della Madonna addolorata, che benedì con facoltà arcivescovile il 22 dicembre 1760. “Questa bella divozione dell’Addolorata - scriveva nelle sue Memorie storiche don Pietro Bossi attorno al 1875 - si deve a quel grande sant’uomo che era il parroco Galbussera (1760-1795), che nei tempi di disgrazie, siccità e dispiaceri, vegliava le notti intere davanti alla sua cara Madonna e al SS.mo Sacramento; e prevedendo colla sua bell’anima inspirata negli ultimi anni della sua vita ciò che doveva succedere in questi suoi amati paesi nel 1800, e seguenti coll’ingresso della sedicente libertà cisalpina, diceva gemendo che non vi avrebbe voluto lasciar neppure le sue scarpe a vedere e provare quei tempi!”
Senza ulteriori trasformazioni si chiudeva il XVII e si apriva il XVIII secolo ma l’edificio, la cui struttura architettonica risaliva al Quattrocento ed era stata solo in parte risistemata dal parroco Colombano a metà del Cinquecento, iniziava a subire l’effetto del tempo. In concomitanza di ciò, il notevole aumento della popolazione registrato in paese all’inizio del Settecento aveva spinto il nuovo parroco Gregorio Marzorati a prendere in considerazione l’idea di un radicale ampliamento della chiesa parrocchiale. I lavori iniziarono nel 1728 con l’allargamento del vecchio edificio nella parte di tramontana e con l’atterramento di parte della casa parrocchiale. Per la verità l’abbattimento riguardò l’intera navata centrale con le cappelle di San Diego e della Madonna del Rosario e la facciata della vecchia chiesa. Nel 1743 moriva il parroco Marzorati e i lavori, proseguiti sotto il parroco Giovanni Battista Pansecco, si conclusero definitivamente solo nel 1762 con l’arrivo di don Carlo Michele Galbussera. Uomo assai intraprendente come si evince dai numerosi documenti d’archivio che lo riguardano, don Galbussera prima ancora di portare a terminare la chiesa parrocchiale aveva fatto realizzare l’altare in onore della Madonna addolorata, che benedì con facoltà arcivescovile il 22 dicembre 1760. “Questa bella divozione dell’Addolorata - scriveva nelle sue Memorie storiche don Pietro Bossi attorno al 1875 - si deve a quel grande sant’uomo che era il parroco Galbussera (1760-1795), che nei tempi di disgrazie, siccità e dispiaceri, vegliava le notti intere davanti alla sua cara Madonna e al SS.mo Sacramento; e prevedendo colla sua bell’anima inspirata negli ultimi anni della sua vita ciò che doveva succedere in questi suoi amati paesi nel 1800, e seguenti coll’ingresso della sedicente libertà cisalpina, diceva gemendo che non vi avrebbe voluto lasciar neppure le sue scarpe a vedere e provare quei tempi!”

Terminata, con grande sforzo la nuova chiesa parrocchiale, era necessario procedere al suo arredo interno; vi era già il nuovo altare dell’Addolorata, ma bisognava ricostruire quelli andati distrutti e dedicati alla Madonna del Rosario e a San Diego. Per la verità nel 1705 era già stato redatto un progetto dall’ingegnere Giacomo Muttoni e dal marmorino Giovanni Pozzi per un nuovo altare del Rosario, che riutilizzava le colonnine in marmo serpentino della precedente ancona, ma il pensiero della nuova chiesa aveva fatto procrastinare ogni ipotesi di sistemazione della cappella. Con l’erezione della chiesa parrocchiale il conte Antonio Piatti si fece carico delle spese di costruzione di questa nuova cappella alla quale, a lavori ultimati, fece apporre le proprie armi gentilizie. Finalmente con facoltà arcivescovile del 1 agosto 1769 - scrive il parroco Galbussera - “nel giorno tredeci di Agosto, domenica seconda del mese al Doppo Pranzo fù benedetta da me Curato Galbussera solennemente detto Altare con intervento dei Molto Rev.di: il Viceparroco di Robecchetto Francesco Panigo col suo cappellano Giovanni Torri ed il R.do cappellano di Turbigo don Carlo Bardelli”.
Casa Piatti, oltre alla cappella del Rosario, aveva promesso di assumersi anche l’onere per la costruzione della nuova cappella di San Diego ma, morto senza eredi il conte Ludovico, l’altare non fu più realizzato; l’antico legato di messa venne trasportato a un altro altare, per essere perduto del tutto dopo il 1805.
Nella cappella destinata a San Diego, dunque, come donazione dei Piatti non restò, fino al 1846, che il quadro inviato dal cardinale Piatti. E fu solo in quell’anno che il parroco Bossi fece costruire in stucco lucido due altari: uno in onore di San Diego e l’altro intitolato a San Vincenzo Ferreri, con apposita decorosa nicchia per riporre la statua dell’Ecce homo. I due altari costruiti da Giovanni Negri costarono 700 lire milanesi, “più altre 464 lire per le spese di costruzione in rustico”. Non essendovi però da tempi così lontani più nessuna funzione all’altare di San Diego, la cappella fu benedetta con facoltà arcivescovile dal parroco Bossi solo il 26 novembre 1854.
E’ doveroso a questo punto un accenno a San Vincenzo Ferreri; anche se in paese la devozione risale al Settecento con l’arrivo della reliquia e con la prima processione delle campagne celebrata nel 1778, abbinando la devozione al santo alle antiche rogazioni del mese di maggio, in chiesa parrocchiale non vi era alcun altare a lui dedicato né tanto meno statue o dipinti che lo raffigurassero. Fu lo stesso parroco Bossi a volere l’altare di San Vincenzo con la pala dipinta nel 1850 dal pittore Baldassare Verazzi. Per tutto l’Ottocento la struttura architettonica della chiesa non subì trasformazioni sostanziali, pur continuando a essere soggetta a interventi di manutenzione e a un continuo abbellimento a opera del parroco Bossi. E si arriva, così, senza grandi novità all’inizio del Novecento.
Il 14 agosto 1910, vigilia dell’Assunta, l’Arcivescovo di Milano, il beato cardinale Andrea Carlo Ferrari, arrivava in paese per amministrare la Cresima e benedire il nuovo Oratorio maschile costruito in via Fredda. Rivolgendosi al nuovo parroco, don Giovanni Battista Magni, oltre a congratularsi per lo zelo espresso nell’apostolato parrocchiale si augurò “che in breve tempo sarebbe sorta una nuova chiesa parrocchiale più ampia”.
Le vicende turbighesi legate all’ingiusta incarcerazione del parroco Magni, la presenza di un vicario spirituale per parecchi mesi prima dell’arrivo di un nuovo curato, fecero temporaneamente accantonare la richiesta dell’Arcivescovo. Finalmente il 21 dicembre 1919 faceva il suo ingresso in paese don Edoardo Riboni, che avrebbe guidato con fermezza la comunità parrocchiale per oltre quarant’anni.
La popolazione, grazie anche allo sviluppo industriale locale, nei primi decenni del Novecento era notevolmente aumentata e la piccola chiesa settecentesca non era più in grado di contenere il numero dei fedeli. Don Riboni - come si legge nel fascicolo a stampa pubblicato nel 1928 per il suo venticinquesimo di sacerdozio - “comprese il bisogno dell’ampliamento della chiesa e vi provvide con larghezza di vedute, aiutato dai buoni, concorrendovi con generose offerte”. Il parroco prima di decidersi per un totale abbattimento della vecchia chiesa aveva pensato a un suo ampliamento, allargando ulteriormente la zona presbiterale. Tale decisione, però, si dimostrò insufficiente e solo qualche anno più tardi prese corpo l’idea di realizzare dalle fondamenta un nuovo edificio. Era la prima volta che si parlava di realizzare una nuova chiesa a Turbigo. Ma dove la si sarebbe dovuta costruire? Sicuramente nello stesso luogo che l’aveva ospitata per tanti secoli: sull’alto del colle, continuando a essere un “faro” a cui guardare e da dove era possibile dominare con un unico colpo d’occhio l’intero paese. Per la verità, in un primo momento si era pensato di costruire la nuova chiesa in paese e lasciare nella parte alta quella vecchia. Lo stesso parroco Riboni aveva parlato di questa soluzione colloquiando con un anonimo cronista del quotidiano “L’Italia”, venuto in paese per condurre alcune ricerche storiche e per cercare testimonianze relative ai Santi Aimo e Vermondo Corio, che la tradizione vuole signori del luogo e fondatori del monastero di Meda. Nell’articolo pubblicato il 23 ottobre 1932, tra le numerose informazioni, il giornalista scrive che dopo la visita al castello, “l’ottimo parroco mi accompagna alla chiesa, che non ha nulla di speciale fuor della superba posizione. Però mi dice, anche questo pregio perderà perché la chiesa è piccina e se ne vuole fare una più grande giù in basso. Che si volesse fare una chiesa nuova me l’aspettavo: figurarsi se Turbigo non vuole fare eccezione alla regola! Ma giù in basso? e perché? Perché in alto non c’è spazio: bisognerebbe rimpicciolire il già non grande sagrato”. Anche da parte di osservatori esterni, quindi, non considerando minimamente il fatto di dover sacrificare un monumento carico di anni e di storia, l’idea di abbandonare il colle non piaceva. “Rimpicciolire il sagrato - continua il cronista - sarebbe un male, d’accordo, ma un male di gran lunga minore della rinuncia all’altura meravigliosa, dalla quale la casa del Signore appare dominante su tutte le altre raccolte di sotto e sembra veramente tenerle sotto la sua protezione, come il pastore col gregge”.
Casa Piatti, oltre alla cappella del Rosario, aveva promesso di assumersi anche l’onere per la costruzione della nuova cappella di San Diego ma, morto senza eredi il conte Ludovico, l’altare non fu più realizzato; l’antico legato di messa venne trasportato a un altro altare, per essere perduto del tutto dopo il 1805.
Nella cappella destinata a San Diego, dunque, come donazione dei Piatti non restò, fino al 1846, che il quadro inviato dal cardinale Piatti. E fu solo in quell’anno che il parroco Bossi fece costruire in stucco lucido due altari: uno in onore di San Diego e l’altro intitolato a San Vincenzo Ferreri, con apposita decorosa nicchia per riporre la statua dell’Ecce homo. I due altari costruiti da Giovanni Negri costarono 700 lire milanesi, “più altre 464 lire per le spese di costruzione in rustico”. Non essendovi però da tempi così lontani più nessuna funzione all’altare di San Diego, la cappella fu benedetta con facoltà arcivescovile dal parroco Bossi solo il 26 novembre 1854.
E’ doveroso a questo punto un accenno a San Vincenzo Ferreri; anche se in paese la devozione risale al Settecento con l’arrivo della reliquia e con la prima processione delle campagne celebrata nel 1778, abbinando la devozione al santo alle antiche rogazioni del mese di maggio, in chiesa parrocchiale non vi era alcun altare a lui dedicato né tanto meno statue o dipinti che lo raffigurassero. Fu lo stesso parroco Bossi a volere l’altare di San Vincenzo con la pala dipinta nel 1850 dal pittore Baldassare Verazzi. Per tutto l’Ottocento la struttura architettonica della chiesa non subì trasformazioni sostanziali, pur continuando a essere soggetta a interventi di manutenzione e a un continuo abbellimento a opera del parroco Bossi. E si arriva, così, senza grandi novità all’inizio del Novecento.
Il 14 agosto 1910, vigilia dell’Assunta, l’Arcivescovo di Milano, il beato cardinale Andrea Carlo Ferrari, arrivava in paese per amministrare la Cresima e benedire il nuovo Oratorio maschile costruito in via Fredda. Rivolgendosi al nuovo parroco, don Giovanni Battista Magni, oltre a congratularsi per lo zelo espresso nell’apostolato parrocchiale si augurò “che in breve tempo sarebbe sorta una nuova chiesa parrocchiale più ampia”.
Le vicende turbighesi legate all’ingiusta incarcerazione del parroco Magni, la presenza di un vicario spirituale per parecchi mesi prima dell’arrivo di un nuovo curato, fecero temporaneamente accantonare la richiesta dell’Arcivescovo. Finalmente il 21 dicembre 1919 faceva il suo ingresso in paese don Edoardo Riboni, che avrebbe guidato con fermezza la comunità parrocchiale per oltre quarant’anni.
La popolazione, grazie anche allo sviluppo industriale locale, nei primi decenni del Novecento era notevolmente aumentata e la piccola chiesa settecentesca non era più in grado di contenere il numero dei fedeli. Don Riboni - come si legge nel fascicolo a stampa pubblicato nel 1928 per il suo venticinquesimo di sacerdozio - “comprese il bisogno dell’ampliamento della chiesa e vi provvide con larghezza di vedute, aiutato dai buoni, concorrendovi con generose offerte”. Il parroco prima di decidersi per un totale abbattimento della vecchia chiesa aveva pensato a un suo ampliamento, allargando ulteriormente la zona presbiterale. Tale decisione, però, si dimostrò insufficiente e solo qualche anno più tardi prese corpo l’idea di realizzare dalle fondamenta un nuovo edificio. Era la prima volta che si parlava di realizzare una nuova chiesa a Turbigo. Ma dove la si sarebbe dovuta costruire? Sicuramente nello stesso luogo che l’aveva ospitata per tanti secoli: sull’alto del colle, continuando a essere un “faro” a cui guardare e da dove era possibile dominare con un unico colpo d’occhio l’intero paese. Per la verità, in un primo momento si era pensato di costruire la nuova chiesa in paese e lasciare nella parte alta quella vecchia. Lo stesso parroco Riboni aveva parlato di questa soluzione colloquiando con un anonimo cronista del quotidiano “L’Italia”, venuto in paese per condurre alcune ricerche storiche e per cercare testimonianze relative ai Santi Aimo e Vermondo Corio, che la tradizione vuole signori del luogo e fondatori del monastero di Meda. Nell’articolo pubblicato il 23 ottobre 1932, tra le numerose informazioni, il giornalista scrive che dopo la visita al castello, “l’ottimo parroco mi accompagna alla chiesa, che non ha nulla di speciale fuor della superba posizione. Però mi dice, anche questo pregio perderà perché la chiesa è piccina e se ne vuole fare una più grande giù in basso. Che si volesse fare una chiesa nuova me l’aspettavo: figurarsi se Turbigo non vuole fare eccezione alla regola! Ma giù in basso? e perché? Perché in alto non c’è spazio: bisognerebbe rimpicciolire il già non grande sagrato”. Anche da parte di osservatori esterni, quindi, non considerando minimamente il fatto di dover sacrificare un monumento carico di anni e di storia, l’idea di abbandonare il colle non piaceva. “Rimpicciolire il sagrato - continua il cronista - sarebbe un male, d’accordo, ma un male di gran lunga minore della rinuncia all’altura meravigliosa, dalla quale la casa del Signore appare dominante su tutte le altre raccolte di sotto e sembra veramente tenerle sotto la sua protezione, come il pastore col gregge”.
La nuova Chiesa
L’idea di costruire una nuova chiesa - come abbiamo visto - era stata ormai presa. Nel 1934 sul “Liber Chronicus” il parroco Riboni scriveva: “Già da tanto tempo si agitava la questione della nuova chiesa in Turbigo, ma sempre le buone proposte fallirono. Nella festa del Santo Natale il parroco ne parlò ancora alla popolazione e, questa volta, poté stabilire qualche cosa sul serio. Il popolo con entusiasmo accettò la proposta del parroco e gli operai si tassarono una lira per quindicina. Il parroco fu risoluto e appena passato l’inverno si iniziarono i lavori di demolizione della chiesa vecchia”.
Il 23 e 24 marzo 1935 l’arcivescovo di Milano, il beato cardinale Alfredo Ildefonso Schuster, compì a Turbigo la Visita pastorale.

“Sua Eminenza - scrive sempre il parroco Riboni - giunse da Milano verso le ore 15 e fu ricevuto dal clero, dalle autorità civili e da tutto il popolo. Le funzioni della Santa Visita Pastorale si tennero nella chiesa sussidiaria. Terminate le prime funzioni, Sua Eminenza col clero, colle autorità e con tutto il popolo si portò in alto, cioè nel terreno della parrocchiale, e pose la prima pietra della nuova chiesa e terminò questa suggestiva cerimonia con un forbito discorso”.
“La nuova chiesa - scrive sempre don Edoardo Riboni - è in stile romano basilicale. Venne costruita in undici mesi suscitando le meraviglie di tutti e anche di Sua Eminenza il Cardinale Schuster. Demolita la vecchia, nel mese di luglio 1935 si gettarono le fondamenta e nella festa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo del 1936 venne consacrata. Superando ogni ostacolo il parroco iniziò i lavori e tutti i Turbighesi seguirono il suo esempio e di buon accordo la nuova chiesa continuò sino al termine”.
Progettista fu l’ingegnere Giovanni Maggi, mentre l’impresa edile fu quella del cavalier Emilio Bollazzi di Lonate Pozzolo. “Il nostro Sig. Prof. Carlo Bonomi, pittore e scultore - aggiunge ancora don Riboni - prestava l’opera sua di assistenza”.
E arriviamo così al giorno della consacrazione della chiesa, che venne fissato in accordo con il cardinale Schuster il 29 giugno 1936. Ma lasciamo la parola al parroco Riboni che così racconta la cerimonia nel suo diario parrocchiale: “Le due feste del 28 e 29 giugno furono veramente solenni. La popolazione ha voluto solennizzare la nomina di Cavaliere del Santo Sepolcro del parroco anche per esternare la sua riconoscenza per il bene fatto costruendo la nuova chiesa e riordinando la canonica con una bella serie di aule e di camere; anzi il nuovo salone refettorio venne benedetto e inaugurato da Sua Eminenza il Cardinale Schuster. L’Arcivescovo arrivò a Turbigo alle ore 19 del giorno 28, predicò nella nuova chiesa, cenò coi sacerdoti nel nuovo salone e alle ore 21 si ritirò nella sua stanza, stanco per il continuo lavoro avuto durante quel giorno. Mirabile è la vita di questo santo Arcivescovo! I Milanesi lo chiamano San Carlino ed è un vero successore degno di San Carlo per la sua santità e lavoro. Turbigo si preparò a questa solennità della consacrazione con un triduo di predicazione tenuto dal parroco della Maddalena di Somma Lombardo, don Pietro Tagliabue, già noto ai Turbighesi e caro amico del parroco.
“La nuova chiesa - scrive sempre don Edoardo Riboni - è in stile romano basilicale. Venne costruita in undici mesi suscitando le meraviglie di tutti e anche di Sua Eminenza il Cardinale Schuster. Demolita la vecchia, nel mese di luglio 1935 si gettarono le fondamenta e nella festa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo del 1936 venne consacrata. Superando ogni ostacolo il parroco iniziò i lavori e tutti i Turbighesi seguirono il suo esempio e di buon accordo la nuova chiesa continuò sino al termine”.
Progettista fu l’ingegnere Giovanni Maggi, mentre l’impresa edile fu quella del cavalier Emilio Bollazzi di Lonate Pozzolo. “Il nostro Sig. Prof. Carlo Bonomi, pittore e scultore - aggiunge ancora don Riboni - prestava l’opera sua di assistenza”.
E arriviamo così al giorno della consacrazione della chiesa, che venne fissato in accordo con il cardinale Schuster il 29 giugno 1936. Ma lasciamo la parola al parroco Riboni che così racconta la cerimonia nel suo diario parrocchiale: “Le due feste del 28 e 29 giugno furono veramente solenni. La popolazione ha voluto solennizzare la nomina di Cavaliere del Santo Sepolcro del parroco anche per esternare la sua riconoscenza per il bene fatto costruendo la nuova chiesa e riordinando la canonica con una bella serie di aule e di camere; anzi il nuovo salone refettorio venne benedetto e inaugurato da Sua Eminenza il Cardinale Schuster. L’Arcivescovo arrivò a Turbigo alle ore 19 del giorno 28, predicò nella nuova chiesa, cenò coi sacerdoti nel nuovo salone e alle ore 21 si ritirò nella sua stanza, stanco per il continuo lavoro avuto durante quel giorno. Mirabile è la vita di questo santo Arcivescovo! I Milanesi lo chiamano San Carlino ed è un vero successore degno di San Carlo per la sua santità e lavoro. Turbigo si preparò a questa solennità della consacrazione con un triduo di predicazione tenuto dal parroco della Maddalena di Somma Lombardo, don Pietro Tagliabue, già noto ai Turbighesi e caro amico del parroco.

Tantissime le Sante Comunioni anche durante la Santa Messa di Sua Eminenza. Stupenda la parata del paese. Sull’arco trionfale d’ingresso spiccavano due grandiosi ritratti di Sua Eminenza e del Parroco. Una illuminazione veramente artistica e fuochi artificiali. Il 29 giugno, alle ore 3.30 di mattino si iniziò la Consacrazione della chiesa e vi partecipò tutto il popolo. La celebrazione durò sino alle 7.30; Sua Eminenza ritornò a Milano verso le ore 8 per assistere in Duomo al Pontificale in onore dei Santi Apostoli Pietro e Paolo. Alle 10.30 ci fu l’ingresso trionfale nella nuova chiesa. La processione partì dall’Asilo Infantile. Funzionava il Parroco assistito da alcuni monsignori e da un buon numero di sacerdoti, circondato da alcuni Cavalieri dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro colle loro ricche divise e insegne venuti appositamente da Milano. Il Parroco cantò la Messa e dopo il Vangelo tenne un breve discorso che fu un inno di ringraziamento al Signore, e ringraziò tutti per l’aiuto avuto per la nuova chiesa. Chi può descrivere la consolazione dei buoni Turbighesi? Giorni di vera letizia, di vera concordia e tutti uniti al loro pastore, e speriamo bene anche per l’avvenire. Alle 15 arrivò da Milano monsignor Soldini, prevosto della Casa Reale e Cavaliere del Santo Sepolcro che diede l’investitura di Cavaliere al parroco; dopo il solenne Te Deum si iniziò la processione e si portò su un carro trionfale il simulacro della Madonna addolorata trainato da due cavalli riccamente bardati”. Consacrando la nuova chiesa il cardinale Schuster concedeva al parroco il privilegio di celebrare la messa rivolto al popolo e fissava in perpetuo l’anniversario di consacrazione della parrocchiale la prima domenica di luglio. Durante il rito di dedicazione l’Arcivescovo aveva deposto e sigillato nell’altare maggiore le reliquie dei Santi martiri Primo, Placido e Feliciano.

Terminata la chiesa bisognava però pensare anche a un nuovo campanile; le sei campane realizzate nel 1928 furono tolte dalla vecchia torre il primo giugno 1937. I lavori di demolizione del campanile iniziarono il 5 luglio e alla metà di agosto la ditta Bollazzi iniziò la costruzione di quello nuovo che, terminato alla metà di dicembre, fu inaugurato con la messa di mezzanotte di Natale. “Dopo cinque mesi di silenzio - scriveva don Riboni - le campane hanno squillato nuovamente suscitando grande entusiasmo in paese. Il parroco alla mezzanotte, dopo il Vangelo, tenne un breve discorso di occasione”.
L’entusiasmo del parroco per la nuova chiesa era tale da invitare a vistarla anche monsignor Alessandro Macchi, suo vecchio compagno di scuola divenuto vescovo di Como. “Sua Eccellenza - ricorda sempre don Riboni - venne il 14 febbraio 1937 a vedere la nuova chiesa e si fermò quasi tutto il giorno; le piacque assai lo stile della chiesa”.
Oltre alla possibilità di celebrare la messa rivolto al popolo, pratica non molto usuale per l’epoca, don Riboni aveva ottenuto dal cardinale Schuster un ulteriore privilegio: conservare il Santissimo Sacramento in un tabernacolo di una cappella laterale (quella della Madonna addolorata) - come prevedono tra l’altro le attuali norme e disposizioni liturgiche - conservando l’altare “nel suo stile veramente basilicale e senza tabernacolo”.
La chiesa era terminata, si trattava ora di abbellirla e l’occasione favorevole si presentò nel 1943, con il quarantesimo anniversario di ordinazione sacerdotale del parroco. Per la felice circostanza i Turbighesi donarono alla chiesa un paramento completo bianco, la Via Crucis in legno scolpito e il pavimento in marmo. Nel giugno 1944 il pittore Mario Albertella iniziò la decorazione ad affresco delle volte. “All’appello del parroco - scrive lo stesso don Riboni - la popolazione di Turbigo ha risposto con generosità. Il Parroco ha offerto 50mila lire. Era intenzione decorare solamente l’altare maggiore, ma la popolazione ha voluto terminarla. Si teme sempre per qualche incursione bellica, ma i Turbighesi hanno molta fiducia in San Vincenzo”. I lavori di abbellimento furono terminati l’anno seguente e ottennero un lusinghiero giudizio anche da parte del cardinale Schuster durante la Visita pastorale dell’11 e 12 maggio 1946.

Una veloce visita alla chiesa
Caratteristica dominante della chiesa parrocchiale, che risulta essere anche un pregio, è la sua uniformità stilistica; fortunatamente i quasi sette decenni trascorsi dalla sua costruzione non hanno eccessivamente snaturato lo stile neoromanico pensato dal progettista. E lo stesso si può affermare per la decorazione interna: il ciclo figurativo ad affresco è tutto riconducibile alla mano del pittore Mario Albertella, che lo ha realizzato tra il 1944 e il 1945. Nel 1969, avviando un intervento di pulitura della chiesa, don Lino Beretta pur condividendo il pensiero espresso da molti di cancellare buona parte degli affreschi a eccezione di quelli del catino absidale, decise invece di “alleggerire” la decorazione solo in alcuni punti e di procedere al restauro e alla conservazione dei dipinti voluti dal suo predecessore. Proprio in quest’occasione furono commissionate ad Aristide Albertella, erede della “bottega” del padre Mario, le nove vetrate che ornano le navate laterali. “Le vetrate - scriveva don Lino Beretta nel 1969 - sviluppano un tema unico che si incentra nella Eucaristia come sacrificio e mistero pasquale di morte e risurrezione per la salvezza dell’uomo nell’alleanza con Dio. Lo spunto per questa tematica ci è offerto dal Canone della messa che risale a V secolo della cristiana; per questa ragione le immagini ripropongono, nella navata sinistra, l’offerta dei doni da parte di Abele, il sacrificio di Abramo, il sommo sacerdote Melchisedech e Mosè nel sacrificio dell’alleanza per la Pasqua ebraica; nella navata destra, la Cena del Giovedì Santo, la Crocifissione, la Resurrezione, l’Ascensione e il Ritorno di Cristo”.
Anche se la storia non è stata molto clemente con il patrimonio artistico del paese, e in modo particolare con la chiesa parrocchiale, a tramandare il suo glorioso passato sono, comunque, rimaste alcune preziose testimonianze che meritano un’attenzione particolare da parte del visitatore e una riscoperta per chi è abituato a vederle con una certa frequenza. Primi tra tutti i due dipinti, oggi collocati nella navata sinistra, raffiguranti Santa Felicita e Sant’Agata, restaurati una ventina di anni fa dal Laboratorio San Gregorio di Busto Arsizio. Durante le fasi di pulitura della tela di Santa Felicita è emersa in maniera chiarissima, oltre al cartiglio della sottoscrizione popolare e alla data, per altro già visibili, la firma del pittore. La scritta completa è la seguente: “S. FELICITAS MARTIR CUIUS FESTum EX VOTO COMUtis TURBIGI CELEBRun DIE VIGIEmo TERo NOVr ob liberatione a peste - M. Gerardin.s 1631” (Santa Felicita martire di cui si celebra la festa per voto della comunità turbighese, il giorno 23 novembre, per la liberazione dalla peste, M. Gherardini, 1631).
Si tratta di Melchiorre Gherardini (1607-1668), discepolo nonché genero del Cerano a cui gli succedette nella direzione della bottega conquistandosi il soprannome di Ceranino. E’ stata questa una scoperta importante perché della produzione pittorica del Gherardini in questo periodo scarsissime sono le opere e tanto meno quelle firmate; per tale ragione il dipinto è stata esposta e assai apprezzato anche nella mostra “Splendori al Museo diocesano” allestita a Milano nel 2000. Purtroppo dalla pulitura dell’altro dipinto raffigurante Sant’Agata non è emersa alcuna data o firma, pur rimanendo indubbia la datazione alla prima metà del XVII secolo.
Tra i due dipinti trova posto anche una pregevole opera scultorea: si tratta di un Crocifisso ligneo restaurato nel 1991. A seguito della fase di pulitura si è potuto datare l’opera alla prima metà del Seicento; inoltre, asportata la pellicola pittorica ottocentesca che ricopriva l’intero manufatto, sono emersi alcuni elementi significativi come le sopracciglia, le macchie di sangue e i baffi.
Proseguendo la nostra “visita” arriviamo all’altare della Madonna addolorata, quello benedetto dal parroco Galbussera nel 1760 e ricollocato nella nuova chiesa parrocchiale. Purtroppo l’antica statua della Madonna è stata sostituita nel 1968 con un nuovo simulacro di artigiano altoatesino.
A coronamento della navata destra si trova, invece, un altro altare proveniente dalla vecchia parrocchiale: la cappella, oggi dedicata al compatrono del paese San Vincenzo Ferreri, era un tempo intitolata alla Madonna del rosario e ne ospitava la statua acquistata alla fine dell’Ottocento dal parroco Bossi. Il simulacro è oggi conservato nella sacrestia della cappella della Casa di riposo “Sant’Edoardo”.
Infine, sempre nella navata destra è esposta l’antica pala d’altare della Madonna assunta. Si tratta di un’opera di notevoli dimensioni, piuttosto rovinata ma assai interessante. “Il quadro dell’Assunta - scriveva il parroco Bossi attorno al 1875 - che ora si ha ai lati dell’altare maggiore, era stato già anticamente, dietro all’altare stesso, e fatto il nuovo altare, circa il 1800, (precisamente nel 1795 per lascito testamentario del parroco Carlo Michele Galbussera) fu appeso in alto al coro, nel luogo della finestra superiore, che è stata riaperta solo nel 1857 dal parroco Bossi, dove per colpa dell’umido del muro a levante e delle esalazioni della chiesa ivi imprigionate andò affatto in rovina. Fu quindi restaurato dal pittore Giuseppe Bergomi di Milano nel 1868 e foderato di nuovo, colla spesa in tutto di circa 100 lire italiane”. Della tela, restaurata nuovamente nel 1987, non si possedevano altre informazioni, fino a quando lo storico Giuseppe Pacciarotti è riuscito ad avvicinare l’opera turbighese a un cartone preparatorio realizzato dal pittore Giuseppe Giovenone il giovane, figlio del più celebre Gerolamo e cresciuto sotto l’influsso della scuola di Gaudenzio Ferrari. Il cartone contrassegnato attualmente col numero 320 si trova all’Accademia Albertina di Torino. Certo non ci si può ancora pronunciare sulla paternità dell’opera di Turbigo, ma è innegabile, per via delle corrispondenze, che il realizzatore ebbe tra le mani il cartone del Giovenone, riferimento utilizzato anche per altri dipinti con lo stesso soggetto.
Continuando la nostra visita, meritano sicuramente un cenno alcune delle opere conservate in sacrestia; di pregio sono gli arredi lignei come il mobile da sacrestia, la cassettiera centrale e l’armadio per gli stendardi realizzato nel 1720.
Passando, invece, alla scultura, l’opera più interessante è il seicentesco busto in legno policromo raffigurante l’Ecce homo. Per concludere, infine, ci soffermiamo su alcune tele appese alle pareti; oltre ai quattro dipinti raffiguranti gli Apostoli, alla Flagellazione di Gesù Cristo e al San Vincenzo Ferreri del Verazzi, pregevolissima è la tela della Madonna immacolata, acquistata dal parroco Bossi.
Infine, merita attenzione il già ricordato dipinto di San Diego inginocchiato davanti al Crocifisso (essendo il santo devoto alla Passione di Cristo) con la scena dell’avvenimento “prodigioso” accaduto al cardinale Flaminio Piatti.
Tra i due dipinti trova posto anche una pregevole opera scultorea: si tratta di un Crocifisso ligneo restaurato nel 1991. A seguito della fase di pulitura si è potuto datare l’opera alla prima metà del Seicento; inoltre, asportata la pellicola pittorica ottocentesca che ricopriva l’intero manufatto, sono emersi alcuni elementi significativi come le sopracciglia, le macchie di sangue e i baffi.
Proseguendo la nostra “visita” arriviamo all’altare della Madonna addolorata, quello benedetto dal parroco Galbussera nel 1760 e ricollocato nella nuova chiesa parrocchiale. Purtroppo l’antica statua della Madonna è stata sostituita nel 1968 con un nuovo simulacro di artigiano altoatesino.
A coronamento della navata destra si trova, invece, un altro altare proveniente dalla vecchia parrocchiale: la cappella, oggi dedicata al compatrono del paese San Vincenzo Ferreri, era un tempo intitolata alla Madonna del rosario e ne ospitava la statua acquistata alla fine dell’Ottocento dal parroco Bossi. Il simulacro è oggi conservato nella sacrestia della cappella della Casa di riposo “Sant’Edoardo”.
Infine, sempre nella navata destra è esposta l’antica pala d’altare della Madonna assunta. Si tratta di un’opera di notevoli dimensioni, piuttosto rovinata ma assai interessante. “Il quadro dell’Assunta - scriveva il parroco Bossi attorno al 1875 - che ora si ha ai lati dell’altare maggiore, era stato già anticamente, dietro all’altare stesso, e fatto il nuovo altare, circa il 1800, (precisamente nel 1795 per lascito testamentario del parroco Carlo Michele Galbussera) fu appeso in alto al coro, nel luogo della finestra superiore, che è stata riaperta solo nel 1857 dal parroco Bossi, dove per colpa dell’umido del muro a levante e delle esalazioni della chiesa ivi imprigionate andò affatto in rovina. Fu quindi restaurato dal pittore Giuseppe Bergomi di Milano nel 1868 e foderato di nuovo, colla spesa in tutto di circa 100 lire italiane”. Della tela, restaurata nuovamente nel 1987, non si possedevano altre informazioni, fino a quando lo storico Giuseppe Pacciarotti è riuscito ad avvicinare l’opera turbighese a un cartone preparatorio realizzato dal pittore Giuseppe Giovenone il giovane, figlio del più celebre Gerolamo e cresciuto sotto l’influsso della scuola di Gaudenzio Ferrari. Il cartone contrassegnato attualmente col numero 320 si trova all’Accademia Albertina di Torino. Certo non ci si può ancora pronunciare sulla paternità dell’opera di Turbigo, ma è innegabile, per via delle corrispondenze, che il realizzatore ebbe tra le mani il cartone del Giovenone, riferimento utilizzato anche per altri dipinti con lo stesso soggetto.
Continuando la nostra visita, meritano sicuramente un cenno alcune delle opere conservate in sacrestia; di pregio sono gli arredi lignei come il mobile da sacrestia, la cassettiera centrale e l’armadio per gli stendardi realizzato nel 1720.
Passando, invece, alla scultura, l’opera più interessante è il seicentesco busto in legno policromo raffigurante l’Ecce homo. Per concludere, infine, ci soffermiamo su alcune tele appese alle pareti; oltre ai quattro dipinti raffiguranti gli Apostoli, alla Flagellazione di Gesù Cristo e al San Vincenzo Ferreri del Verazzi, pregevolissima è la tela della Madonna immacolata, acquistata dal parroco Bossi.
Infine, merita attenzione il già ricordato dipinto di San Diego inginocchiato davanti al Crocifisso (essendo il santo devoto alla Passione di Cristo) con la scena dell’avvenimento “prodigioso” accaduto al cardinale Flaminio Piatti.
Bibliografia di riferimento: Paolo MIRA, La chiesa della Beata Vergine Assunta di Turbigo, Turbigo 2003.