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di Arabella Biscaro
editing Roberto Bottiani
editing Roberto Bottiani
Entrando in città da viale Espinasse, dopo il sottopassaggio della stazione ferroviaria, il primo edificio che si scorge sulla sinistra è una vecchia villa a due piani del Seicento piena di buchi, danni provocati dagli scontri del 1859 ancora oggi parzialmente visibili, attorno un parco ben tenuto con alberi secolari e aiuole fiorite.
A chi invece arriva dal centro e percorre via 4 Giugno l’edificio si presenta più ordinato e ristrutturato, frutto di un’attenta scelta al momento del restauro. E’ Casa Giacobbe: la facciata verso il giardino, crivellata dai proiettili, è stata mantenuta in questo stato a ricordo glorioso della Battaglia e restituita ai cittadini di Magenta nel 2003 durante le celebrazioni del 144° anniversario della Battaglia di Magenta, facendola divenire ‘Casa della Cultura´. Passato e futuro convivono in Casa Giacobbe che oggi è sede della Pro Loco Magenta e di 49 Associazioni della città.
Un po’ di storia
Le prime notizie risalgono al 1664 quando l'edificio di proprietà della famiglia Borri fu ipotecato a favore della nobildonna milanese Clara Pedra Borgazzi. Nel 1690 Maddalena Borri, erede di Francesco, cedeva definitivamente la casa insieme ad altri beni al fine di estinguere il debito contratto dal padre, a Carlo Domenico Borgazzi, figlio ed erede di Clara Petra.
L’edificio si articolava in una prima ala, non più esistente, che prospettava sulla strada per Marcallo (l’attuale via 4 Giugno) ed era caratterizzata da un ampio androne d’ingresso dal quale avevano accesso le carrozze. Disposta su due piani comprendeva alcuni locali di servizio, una legnaia e una stalla con fienile collocate a destra del portone, mentre una scala, probabilmente di legno, conduceva ai piani superiori dove si trovavano alcune camere. Un secondo corpo di fabbricato (che corrisponde all’attuale Casa Giacobbe), era posto perpendicolarmente al primo secondo uno schema ad elle. Anch’esso su due piani, era caratterizzato al piano terreno da un portico (che oggi è la veranda con le pitture di Campi), sul quale si apriva il salone principale della villa. Sulla sinistra, dando le spalle al portico, si trovavano due locali adibiti a lavanderia e cucina; sulla destra c’erano una “saletta” e la scala di pietra accessibile direttamente dal portico che conduceva in due andate al piano superiore. Qui la distribuzione dei locali ricalcava quella del piano terreno, con un grande corridoio (“la galleria”) posto in corrispondenza del portico sottostante. Il complesso comprendeva anche un terzo corpo di fabbrica, andato però distrutto, dove si trovava il “luogo del torchio” nel mezzo del quale vi era una colombaia sostenuta da due archi di cotto. Accanto al torchio si trovava “una canepa fatta in volta” con un “solaro tramezzato in due, con un pezzo di giardino”. Verso nord la proprietà si estendeva con il giardino fino all'odierna via Cavallari e a sud confinava con l’orto e la proprietà di un certo Sig. Dardanone.
Nel 1723, in occasione del censimento voluto da Carlo VI, fu stesa la prima mappa catastale della cittadina di Magenta: in essa non sono evidenziati i perimetri esterni dei muri degli edifici e quindi non è possibile rilevare l’ingombro di villa Giacobbe, ma con una campitura in acquarello verde è evidenziata l’area destinata a giardino. Il primo documento iconografico che mostra l’edificio nella sua articolazione originaria ad U è una mappa della seconda metà del XVIII secolo.
Nel 1768 Giovanni Battista Borgazzi ereditò la casa dal padre, ma qualche tempo dopo l’intero possedimento dovette passare al ragioniere Filippo Viganò di Milano che nel maggio del 1820 vendette tutti i suoi beni a Magenta a Giovanni Andrea De Andrea, anch’egli residente a Milano. All’atto notarile che sancisce la vendita è allegata una relazione di stima stesa nel 1818 da cui si apprende che i corpi di fabbrica della parte nobile dell’edificio erano separati dalla corte della casa colonica con un muro divisorio in cui si apriva una porticina di comunicazione. Nella relazione è anche contenuta un’importante informazione che riguarda la sala principale della casa, dove si trovava un “camino grande all’antica di manera sagomato ed intagliato a figure”.
Nel 1833 il proprietario morì, lasciando i suoi beni in eredità alle figlie e ad alcuni nipoti; in una successiva spartizione la villa di Magenta rimase alla figlia Agostina De Andrea, sposata con l’avvocato Giovanni Giacobbe (padre), cui risulta intestata la casa nel 1841. In una stampa è riprodotta anche la torretta “con passerera”, dove soleva scrivere un personaggio di spicco che abitò la villa, Donna Maria Porro Lambertenghi, “dama bella e gentile. Fu aristocratica per modi e per intelligenza, per cultura e per cuore. Amava la musica ardentemente e fu essa pure musicista esimia accogliendo intorno a sé Frugatta Andreoli, i fratelli Sala, Giulio Simonetta, Boito ed altri valenti....”. Di famiglia nobile, era figlia del marchese Giberto Porro Lambertenghi che ebbe come precettore Silvio Pellico, fu amica intima di Donna Vittoria Cima, il cui salotto fu un tempio dedicato all’arte più eletta, ma morì giovanissima. Grazie alle conoscenze nella “sua” Milano e, soprattutto, a quelle della moglie, in quegli anni la villa dell’avvocato Giacobbe era meta dei più importanti esponenti della cultura milanese. Di donna Maria Giacobbe scrisse una commemorazione Giannino Antona Traversi.
Il rilevamento catastale della villa del 1854 non mostra significative modifiche dell’impianto tipologico rispetto alla mappa della seconda metà del Settecento, ma evidenzia la sua ubicazione al limite del nucleo abitato ed adiacente alla linea ferroviaria Milano-Torino sulla quale il viaggio inaugurale dell’unione dei due tronchi fu effettuato il 1 giugno 1859, tre giorni prima della Battaglia.
A chi invece arriva dal centro e percorre via 4 Giugno l’edificio si presenta più ordinato e ristrutturato, frutto di un’attenta scelta al momento del restauro. E’ Casa Giacobbe: la facciata verso il giardino, crivellata dai proiettili, è stata mantenuta in questo stato a ricordo glorioso della Battaglia e restituita ai cittadini di Magenta nel 2003 durante le celebrazioni del 144° anniversario della Battaglia di Magenta, facendola divenire ‘Casa della Cultura´. Passato e futuro convivono in Casa Giacobbe che oggi è sede della Pro Loco Magenta e di 49 Associazioni della città.
Un po’ di storia
Le prime notizie risalgono al 1664 quando l'edificio di proprietà della famiglia Borri fu ipotecato a favore della nobildonna milanese Clara Pedra Borgazzi. Nel 1690 Maddalena Borri, erede di Francesco, cedeva definitivamente la casa insieme ad altri beni al fine di estinguere il debito contratto dal padre, a Carlo Domenico Borgazzi, figlio ed erede di Clara Petra.
L’edificio si articolava in una prima ala, non più esistente, che prospettava sulla strada per Marcallo (l’attuale via 4 Giugno) ed era caratterizzata da un ampio androne d’ingresso dal quale avevano accesso le carrozze. Disposta su due piani comprendeva alcuni locali di servizio, una legnaia e una stalla con fienile collocate a destra del portone, mentre una scala, probabilmente di legno, conduceva ai piani superiori dove si trovavano alcune camere. Un secondo corpo di fabbricato (che corrisponde all’attuale Casa Giacobbe), era posto perpendicolarmente al primo secondo uno schema ad elle. Anch’esso su due piani, era caratterizzato al piano terreno da un portico (che oggi è la veranda con le pitture di Campi), sul quale si apriva il salone principale della villa. Sulla sinistra, dando le spalle al portico, si trovavano due locali adibiti a lavanderia e cucina; sulla destra c’erano una “saletta” e la scala di pietra accessibile direttamente dal portico che conduceva in due andate al piano superiore. Qui la distribuzione dei locali ricalcava quella del piano terreno, con un grande corridoio (“la galleria”) posto in corrispondenza del portico sottostante. Il complesso comprendeva anche un terzo corpo di fabbrica, andato però distrutto, dove si trovava il “luogo del torchio” nel mezzo del quale vi era una colombaia sostenuta da due archi di cotto. Accanto al torchio si trovava “una canepa fatta in volta” con un “solaro tramezzato in due, con un pezzo di giardino”. Verso nord la proprietà si estendeva con il giardino fino all'odierna via Cavallari e a sud confinava con l’orto e la proprietà di un certo Sig. Dardanone.
Nel 1723, in occasione del censimento voluto da Carlo VI, fu stesa la prima mappa catastale della cittadina di Magenta: in essa non sono evidenziati i perimetri esterni dei muri degli edifici e quindi non è possibile rilevare l’ingombro di villa Giacobbe, ma con una campitura in acquarello verde è evidenziata l’area destinata a giardino. Il primo documento iconografico che mostra l’edificio nella sua articolazione originaria ad U è una mappa della seconda metà del XVIII secolo.
Nel 1768 Giovanni Battista Borgazzi ereditò la casa dal padre, ma qualche tempo dopo l’intero possedimento dovette passare al ragioniere Filippo Viganò di Milano che nel maggio del 1820 vendette tutti i suoi beni a Magenta a Giovanni Andrea De Andrea, anch’egli residente a Milano. All’atto notarile che sancisce la vendita è allegata una relazione di stima stesa nel 1818 da cui si apprende che i corpi di fabbrica della parte nobile dell’edificio erano separati dalla corte della casa colonica con un muro divisorio in cui si apriva una porticina di comunicazione. Nella relazione è anche contenuta un’importante informazione che riguarda la sala principale della casa, dove si trovava un “camino grande all’antica di manera sagomato ed intagliato a figure”.
Nel 1833 il proprietario morì, lasciando i suoi beni in eredità alle figlie e ad alcuni nipoti; in una successiva spartizione la villa di Magenta rimase alla figlia Agostina De Andrea, sposata con l’avvocato Giovanni Giacobbe (padre), cui risulta intestata la casa nel 1841. In una stampa è riprodotta anche la torretta “con passerera”, dove soleva scrivere un personaggio di spicco che abitò la villa, Donna Maria Porro Lambertenghi, “dama bella e gentile. Fu aristocratica per modi e per intelligenza, per cultura e per cuore. Amava la musica ardentemente e fu essa pure musicista esimia accogliendo intorno a sé Frugatta Andreoli, i fratelli Sala, Giulio Simonetta, Boito ed altri valenti....”. Di famiglia nobile, era figlia del marchese Giberto Porro Lambertenghi che ebbe come precettore Silvio Pellico, fu amica intima di Donna Vittoria Cima, il cui salotto fu un tempio dedicato all’arte più eletta, ma morì giovanissima. Grazie alle conoscenze nella “sua” Milano e, soprattutto, a quelle della moglie, in quegli anni la villa dell’avvocato Giacobbe era meta dei più importanti esponenti della cultura milanese. Di donna Maria Giacobbe scrisse una commemorazione Giannino Antona Traversi.
Il rilevamento catastale della villa del 1854 non mostra significative modifiche dell’impianto tipologico rispetto alla mappa della seconda metà del Settecento, ma evidenzia la sua ubicazione al limite del nucleo abitato ed adiacente alla linea ferroviaria Milano-Torino sulla quale il viaggio inaugurale dell’unione dei due tronchi fu effettuato il 1 giugno 1859, tre giorni prima della Battaglia.
La posizione periferica e strategica della villa, che dominava con la sua torretta la linea ferroviaria, la stazione e le strade per Boffalora e Marcallo, fece sì che rappresentasse uno dei capisaldi delle linee difensive austroungariche durante la Battaglia del 4 giugno 1859. Quel giorno alla guida dei propri zuavi il generale Charles Marie Espinasse fu mortalmente colpito dai Kaiserjager che occupavano la villa.
Casa Giacobbe è oggi testimonianza viva della sanguinosa giornata risorgimentale attraverso i segni visibili, i dipinti e i cimeli: quelle cicatrici ricordano ancora oggi i momenti più cruenti della battaglia che permise alle truppe di Napoleone III e di Vittorio Emanuele II la liberazione di Milano. L’avvocato Giacobbe infatti incaricò il pittore della Scapigliatura milanese Giacomo Campi di decorare il porticato della villa con un ciclo in cui si raccontasse la Campagna del 1859 e l’opera venne terminata nel 1897.
Sulla parete sinistra vi è raffigurata la notte stellata con il “curvo filo della luna nuova” a ricordo della notte del 4 giugno 1859. Una figura aureolata di donna simboleggia la “fatalità”, che essa deterge il sangue dalla spada che impugna a significare che la guerra non è sempre voluta dagli uomini, ma che talvolta è il fato a spingere i popoli l’un contro l’altro. In un secondo grande affresco il Campi ha voluto raffigurare gli orrori della guerra. Sui due lati di una porta un robusto contadino e una contadina stanno raccogliendo le armi abbandonate nei campi e rastrellando il terreno per simboleggiare che, dopo la tempesta, il lavoro farà rinascere nuovamente i suoi benefici frutti. Sono di Campi anche le pitture del camino “Il brindisi della riconciliazione” dei due soldati feriti e l’allegoria dell’”Unità d’Italia” dipinte dopo il 1918. Mentre nella pietra arenaria è scolpito il mito di Orfeo.
Casa Giacobbe è oggi testimonianza viva della sanguinosa giornata risorgimentale attraverso i segni visibili, i dipinti e i cimeli: quelle cicatrici ricordano ancora oggi i momenti più cruenti della battaglia che permise alle truppe di Napoleone III e di Vittorio Emanuele II la liberazione di Milano. L’avvocato Giacobbe infatti incaricò il pittore della Scapigliatura milanese Giacomo Campi di decorare il porticato della villa con un ciclo in cui si raccontasse la Campagna del 1859 e l’opera venne terminata nel 1897.
Sulla parete sinistra vi è raffigurata la notte stellata con il “curvo filo della luna nuova” a ricordo della notte del 4 giugno 1859. Una figura aureolata di donna simboleggia la “fatalità”, che essa deterge il sangue dalla spada che impugna a significare che la guerra non è sempre voluta dagli uomini, ma che talvolta è il fato a spingere i popoli l’un contro l’altro. In un secondo grande affresco il Campi ha voluto raffigurare gli orrori della guerra. Sui due lati di una porta un robusto contadino e una contadina stanno raccogliendo le armi abbandonate nei campi e rastrellando il terreno per simboleggiare che, dopo la tempesta, il lavoro farà rinascere nuovamente i suoi benefici frutti. Sono di Campi anche le pitture del camino “Il brindisi della riconciliazione” dei due soldati feriti e l’allegoria dell’”Unità d’Italia” dipinte dopo il 1918. Mentre nella pietra arenaria è scolpito il mito di Orfeo.
Non solo dipinti. Infatti l’avvocato e i suoi discendenti vollero consacrare la villa al culto della Battaglia del 4 Giugno 1859: raccolsero i cimeli di quella memorabile giornata e li esposero nelle vetrine di un salone. Anche per il Museo patriottico ordinato dal figlio Gian Franco, Tenente di Cavalleria, la famiglia si avvalse dell’opera del Campi che decorò il frontone della porta d’ingresso e l’interno, sebbene di queste opere non sia rimasto nulla a causa della demolizione del fabbricato intorno agli anni ’70.
Dopo la morte del figlio, avvenuta improvvisamente nel 1902, nel 1921 Giovanni Giacobbe donò alla città di Magenta i cimeli della Battaglia conservati nel museo allestito dal figlio. Dieci anni più tardi il Podestà di Magenta Giuseppe Brocca affidò le preziose memorie al Museo del Risorgimento di Milano. Non sono molti e neppure spettacolari, eppure commuovono per la loro umanità: un libro di preghiere in tedesco, un pezzo di pane lasciato da Napoleone, una lettera di una ragazza francese a un soldato, una borraccia di legno e sciabole, divise, bandiere, fucili.
Nel 1935 la villa fu acquistata dal Comune e nello stesso anno furono abbattuti il corpo di fabbrica su via 4 Giugno e l’ala anticamente occupata dal torchio di cui fu risparmiata solo la bassa parete con l’ampia arcata attraverso cui ora si accede alla palestra, costruita a partire dal 1936 a ridosso dell’unico corpo della villa ancora esistente.
La storia più recente descrive Casa Giacobbe come scuola, biblioteca comunale, piccolo museo, sala mostre, sede del Parco del Ticino, sede di uffici comunali. Dal 2003 è centro e motore delle iniziative culturali e associative della Città.
Il restauro
L’8 giugno 2003 Casa Giacobbe è stata restituita alla Città di Magenta dopo un restauro completo. Sulla facciata storica sono stati mantenuti intatti i segni della Storia, consolidando gli intonaci distaccati, pericolanti e la muratura: i fori dei colpi di cannone e di moschetto sono stati sigillati solo sui bordi, conservandoli come ferite aperte nella muratura. Si è anche rimediato all’intervento pesante e al contempo squalificante effettuato negli anni ’50 e ‘60 sopra la volta affrescata dal Campi: in ossequio all’originaria scelta del pittore, il colore rosso è infatti ritornato sullo zoccolo e le colonne dell’atrio.
Il restauro interno ha permesso il recupero di spazi interessanti al primo piano (eliminando il corridoio), ma soprattutto nel seminterrato, dove è stato portato alla luce un antico pozzo e riattivata la scala interna che scende dal terrazzo verso i giardini pubblici. Inoltre è stata creata una nuova zona d’ingresso coperta nel cortiletto posto sul lato sud-est dell’edificio, adiacente al cortile principale. I quattro livelli - seminterrato, terra, ammezzato e primo piano - sono ora anche serviti da un ascensore, segno che una particolare attenzione è stata posta all’abbattimento delle barriere architettoniche.
In un salone interno, nella cui parete in fondo si apre un grande camino seicentesco in pietra arenaria di grande pregio, il Campi diede forma al suo spirito umanitario raffigurando un soldato francese ed uno austriaco, entrambi feriti, che bevono fraternamente brindando alla pace dopo la battaglia, è “Il brindisi della riconciliazione”. Il camino è l’opera più antica e fortunatamente ancora integra.
Di notevole interesse sono anche le cariatidi e i bassorilievi. Le superfici esposte ai fumi, particolarmente ingrigite, sono state ripulite con impacchi di solventi con polpa di carta che hanno consentito di recuperare la cromia originale.
Il restauro è stato svolto con precise e specifiche tecniche che hanno ridato leggibilità a tutte le scene raffigurate. Leggibilità recuperata anche per gli affreschi, in particolare delle “tempere a calce” del portico, dove si è proceduto con estrema cautela. In accordo con la Sovrintendenza dopo la riscoperta di figure nascoste da un precedente restauro si è proceduto al recupero, mantenendo però l’aspetto consumato, come fantasmi che appaiono tra figure più nitide.
Dopo la morte del figlio, avvenuta improvvisamente nel 1902, nel 1921 Giovanni Giacobbe donò alla città di Magenta i cimeli della Battaglia conservati nel museo allestito dal figlio. Dieci anni più tardi il Podestà di Magenta Giuseppe Brocca affidò le preziose memorie al Museo del Risorgimento di Milano. Non sono molti e neppure spettacolari, eppure commuovono per la loro umanità: un libro di preghiere in tedesco, un pezzo di pane lasciato da Napoleone, una lettera di una ragazza francese a un soldato, una borraccia di legno e sciabole, divise, bandiere, fucili.
Nel 1935 la villa fu acquistata dal Comune e nello stesso anno furono abbattuti il corpo di fabbrica su via 4 Giugno e l’ala anticamente occupata dal torchio di cui fu risparmiata solo la bassa parete con l’ampia arcata attraverso cui ora si accede alla palestra, costruita a partire dal 1936 a ridosso dell’unico corpo della villa ancora esistente.
La storia più recente descrive Casa Giacobbe come scuola, biblioteca comunale, piccolo museo, sala mostre, sede del Parco del Ticino, sede di uffici comunali. Dal 2003 è centro e motore delle iniziative culturali e associative della Città.
Il restauro
L’8 giugno 2003 Casa Giacobbe è stata restituita alla Città di Magenta dopo un restauro completo. Sulla facciata storica sono stati mantenuti intatti i segni della Storia, consolidando gli intonaci distaccati, pericolanti e la muratura: i fori dei colpi di cannone e di moschetto sono stati sigillati solo sui bordi, conservandoli come ferite aperte nella muratura. Si è anche rimediato all’intervento pesante e al contempo squalificante effettuato negli anni ’50 e ‘60 sopra la volta affrescata dal Campi: in ossequio all’originaria scelta del pittore, il colore rosso è infatti ritornato sullo zoccolo e le colonne dell’atrio.
Il restauro interno ha permesso il recupero di spazi interessanti al primo piano (eliminando il corridoio), ma soprattutto nel seminterrato, dove è stato portato alla luce un antico pozzo e riattivata la scala interna che scende dal terrazzo verso i giardini pubblici. Inoltre è stata creata una nuova zona d’ingresso coperta nel cortiletto posto sul lato sud-est dell’edificio, adiacente al cortile principale. I quattro livelli - seminterrato, terra, ammezzato e primo piano - sono ora anche serviti da un ascensore, segno che una particolare attenzione è stata posta all’abbattimento delle barriere architettoniche.
In un salone interno, nella cui parete in fondo si apre un grande camino seicentesco in pietra arenaria di grande pregio, il Campi diede forma al suo spirito umanitario raffigurando un soldato francese ed uno austriaco, entrambi feriti, che bevono fraternamente brindando alla pace dopo la battaglia, è “Il brindisi della riconciliazione”. Il camino è l’opera più antica e fortunatamente ancora integra.
Di notevole interesse sono anche le cariatidi e i bassorilievi. Le superfici esposte ai fumi, particolarmente ingrigite, sono state ripulite con impacchi di solventi con polpa di carta che hanno consentito di recuperare la cromia originale.
Il restauro è stato svolto con precise e specifiche tecniche che hanno ridato leggibilità a tutte le scene raffigurate. Leggibilità recuperata anche per gli affreschi, in particolare delle “tempere a calce” del portico, dove si è proceduto con estrema cautela. In accordo con la Sovrintendenza dopo la riscoperta di figure nascoste da un precedente restauro si è proceduto al recupero, mantenendo però l’aspetto consumato, come fantasmi che appaiono tra figure più nitide.
La Battaglia del 4 giugno 1859 e il Museo della Battaglia a Casa Giacobbe
1859. Il piano di guerra austriaco mira a schiacciare il piccolo esercito sabaudo prima che i francesi di Napoleone III possano accorrere in aiuto, ma il piano fallisce, perché l’esercito austriaco, sotto il comando del vecchio maresciallo Gyulaj, si attarda nelle risaie del Vercellese, che erano state allagate per ostacolare l’avanzata del nemico. Il grosso delle forze franco-piemontesi ai primi di giugno si prepara a passare il Ticino a Turbigo e a Magenta, per puntare poi verso Milano, mentre gli austriaci attendono l’attacco molto più a sud, in Lomellina. Accortosi troppo tardi del tranello, Gyulaj retrocede e ordina di far saltare il grande ponte napoleonico sul Ticino tra Magenta e Trecate. Ma l’operazione non ha successo.
Il piano dei franco-piemontesi consiste nel puntare su Magenta da Turbigo e dal ponte sul Ticino sulla strada tra Milano e Novara. Resosi conto delle intenzioni dei francesi, il comando austriaco ordina di spostare il grosso dell’esercito dalla Lomellina a Magenta, attraverso Vigevano e Abbiategrasso; la difesa è disposta lungo il Naviglio, confidando di fare saltare i ponti di Robecco, Pontevecchio, Pontenuovo e Boffalora.
A Magenta si combatte così il 4 giugno 1859 una grande battaglia campale tra l’esercito austriaco (56.000 uomini e 176 pezzi) e l’armata franco-piemontese (47.000 uomini e 91 pezzi) al comando di Napoleone III. Magenta ha avuto un ruolo fondamentale nel cammino verso l’Unità d’Italia, da Magenta e dal suo territorio è partito il processo di unificazione del nostro Paese.
Il secondo corpo d’armata francese al comando del generale Mac Mahon viene diviso in due colonne, una al comando del generale stesso che passa per Boffalora, l’altra agli ordini del generale Espinasse che passa per Marcallo. Intanto le truppe austriache tardano ad arrivare dalla Lomellina e a difendere la linea del Naviglio restano solo i 20-25.000 uomini del generale Clam Gallas che a Boffalora riescono a far saltare il ponte sul Naviglio, difendono strenuamente alcune cascine nei dintorni per guadagnare tempo in attesa dei rinforzi.
La battaglia si fa concitata attorno a Pontenuovo, lungo la linea ferroviaria poco lontano dal ponte sul Naviglio che gli austriaci non erano riusciti a minare, con ripetuti attacchi e ritirate da parte dei francesi. Mentre il terzo corpo d’armata francese, partito al mattino da Novara, ritarda a giungere sul campo di battaglia, Espinasse cerca inutilmente di congiungersi a Mac Mahon a Boffalora. La marcia continua separatamente su Magenta, avendo il campanile della chiesa di San Martino come punto di riferimento. Da Abbiategrasso tuttavia comincia ad arrivare il grosso delle truppe austriache, il cui ingresso in linea rende la situazione critica per i francesi a tal punto che gli austriaci inviano a Vienna un telegramma che annuncia la loro vittoria.
A Pontenuovo la situazione per i francesi appare infatti disperata, con cinquemila uomini che – come raccontano le cronache - per tre quarti d’ora devono sostenere l’urto di cinquantamila austriaci. L’arrivo di Mac Mahon restituisce però fiducia ai francesi e induce gli austriaci a retrocedere per difendere Magenta. Nel pomeriggio la battaglia divampa attorno alla stazione ferroviaria di Magenta: quartier generale degli austriaci che abbandonano le posizioni e si ritirano nelle case per difendere palmo a palmo il terreno è Casa Giacobbe. Il generale Espinasse cade nell’attacco alla stazione ferroviaria, ma la sua divisione e quella di Mac Mahon attaccano con un movimento a tenaglia gli austriaci asserragliati nel borgo, riuscendo a conquistare il controllo delle vie d’accesso. Alle sette della sera gli austriaci si persuadono di aver perso e si affrettano a ritirarsi meditando una rivincita, che non verrà, per il giorno successivo. Dopo la vittoriosa battaglia, l’imperatore Napoleone III nomina Mac Mahon Maresciallo di Francia e Duca di Magenta. Sul campo si contano circa seimila morti, tre quarti dei quali austriaci.
Questa è una delle pagine più significative della Storia d’Italia che in tre anni di campagne militari condotte dai franco-piemontesi per la conquista dell´Indipendenza e porterà alla riunione degli stati della penisola sotto il dominio dei Savoia e per la realizzazione dell´Unità. L’8 giugno gli alleati con Vittorio Emanuele II e l’imperatore francese entrano vincitori in Milano, sfilando sotto l’Arco della Pace in corso Sempione.
1859. Il piano di guerra austriaco mira a schiacciare il piccolo esercito sabaudo prima che i francesi di Napoleone III possano accorrere in aiuto, ma il piano fallisce, perché l’esercito austriaco, sotto il comando del vecchio maresciallo Gyulaj, si attarda nelle risaie del Vercellese, che erano state allagate per ostacolare l’avanzata del nemico. Il grosso delle forze franco-piemontesi ai primi di giugno si prepara a passare il Ticino a Turbigo e a Magenta, per puntare poi verso Milano, mentre gli austriaci attendono l’attacco molto più a sud, in Lomellina. Accortosi troppo tardi del tranello, Gyulaj retrocede e ordina di far saltare il grande ponte napoleonico sul Ticino tra Magenta e Trecate. Ma l’operazione non ha successo.
Il piano dei franco-piemontesi consiste nel puntare su Magenta da Turbigo e dal ponte sul Ticino sulla strada tra Milano e Novara. Resosi conto delle intenzioni dei francesi, il comando austriaco ordina di spostare il grosso dell’esercito dalla Lomellina a Magenta, attraverso Vigevano e Abbiategrasso; la difesa è disposta lungo il Naviglio, confidando di fare saltare i ponti di Robecco, Pontevecchio, Pontenuovo e Boffalora.
A Magenta si combatte così il 4 giugno 1859 una grande battaglia campale tra l’esercito austriaco (56.000 uomini e 176 pezzi) e l’armata franco-piemontese (47.000 uomini e 91 pezzi) al comando di Napoleone III. Magenta ha avuto un ruolo fondamentale nel cammino verso l’Unità d’Italia, da Magenta e dal suo territorio è partito il processo di unificazione del nostro Paese.
Il secondo corpo d’armata francese al comando del generale Mac Mahon viene diviso in due colonne, una al comando del generale stesso che passa per Boffalora, l’altra agli ordini del generale Espinasse che passa per Marcallo. Intanto le truppe austriache tardano ad arrivare dalla Lomellina e a difendere la linea del Naviglio restano solo i 20-25.000 uomini del generale Clam Gallas che a Boffalora riescono a far saltare il ponte sul Naviglio, difendono strenuamente alcune cascine nei dintorni per guadagnare tempo in attesa dei rinforzi.
La battaglia si fa concitata attorno a Pontenuovo, lungo la linea ferroviaria poco lontano dal ponte sul Naviglio che gli austriaci non erano riusciti a minare, con ripetuti attacchi e ritirate da parte dei francesi. Mentre il terzo corpo d’armata francese, partito al mattino da Novara, ritarda a giungere sul campo di battaglia, Espinasse cerca inutilmente di congiungersi a Mac Mahon a Boffalora. La marcia continua separatamente su Magenta, avendo il campanile della chiesa di San Martino come punto di riferimento. Da Abbiategrasso tuttavia comincia ad arrivare il grosso delle truppe austriache, il cui ingresso in linea rende la situazione critica per i francesi a tal punto che gli austriaci inviano a Vienna un telegramma che annuncia la loro vittoria.
A Pontenuovo la situazione per i francesi appare infatti disperata, con cinquemila uomini che – come raccontano le cronache - per tre quarti d’ora devono sostenere l’urto di cinquantamila austriaci. L’arrivo di Mac Mahon restituisce però fiducia ai francesi e induce gli austriaci a retrocedere per difendere Magenta. Nel pomeriggio la battaglia divampa attorno alla stazione ferroviaria di Magenta: quartier generale degli austriaci che abbandonano le posizioni e si ritirano nelle case per difendere palmo a palmo il terreno è Casa Giacobbe. Il generale Espinasse cade nell’attacco alla stazione ferroviaria, ma la sua divisione e quella di Mac Mahon attaccano con un movimento a tenaglia gli austriaci asserragliati nel borgo, riuscendo a conquistare il controllo delle vie d’accesso. Alle sette della sera gli austriaci si persuadono di aver perso e si affrettano a ritirarsi meditando una rivincita, che non verrà, per il giorno successivo. Dopo la vittoriosa battaglia, l’imperatore Napoleone III nomina Mac Mahon Maresciallo di Francia e Duca di Magenta. Sul campo si contano circa seimila morti, tre quarti dei quali austriaci.
Questa è una delle pagine più significative della Storia d’Italia che in tre anni di campagne militari condotte dai franco-piemontesi per la conquista dell´Indipendenza e porterà alla riunione degli stati della penisola sotto il dominio dei Savoia e per la realizzazione dell´Unità. L’8 giugno gli alleati con Vittorio Emanuele II e l’imperatore francese entrano vincitori in Milano, sfilando sotto l’Arco della Pace in corso Sempione.
Alcuni interni del museo della Battaglia
La rievocazione storica della Battaglia di Magenta
Già dopo il termine della sanguinosa battaglia del 4 giugno 1859, i magentini avevano raccolto sul campo un gran numero di reperti bellici tra cui pallottole, armi, divise, bandiere e cannoni di entrambi gli schieramenti dello scontro risorgimentale. La famiglia Giacobbe, proprietaria della casa dove si trovava l’ultimo baluardo austriaco e dove si era svolto l’assalto più cruento, rientrata da Milano dove aveva soggiornato durante i giorni degli scontri, risistemando la casa vi trovò all’interno numerosi oggetti di quello scontro. Fu così che Gian Franco Giacobbe volle tenere i primi reperti che andarono a costituire il primo museo patriottico. Col tempo molti oggetti andarono al Museo del Risorgimento di Milano o distrutti o dispersi dal Comune a collezionisti privati. Il progetto è stato ripreso dall’Amministrazione Comunale all’inizio del XXI secolo che, chiese la collaborazione dei cittadini che a Magenta possedevano dei reperti, pitture, documenti dello scontro, così da raccoglierli in un’unica collezione con la specifica della collezione di provenienza. Nell’aprile 2012 in occasione del 153º anniversario della Battaglia è stato quindi inaugurato il “Museo della Battaglia – Magenta protagonista del Risorgimento” ospitato in Casa Giacobbe, che propone un completo percorso didattico con lo scopo di consolidare la vocazione turistica ma soprattutto di tramandare la conoscenza della storia della città dove si è scritta una pagina importante del Risorgimento italiano. La sala principale del museo accoglie il visitatore con i tre busti bronzei di Vittorio Emanuele II, Francesco Giuseppe e Napoleone III, fatti realizzare da don Cesare Tragella per il progetto di un ossario dei caduti della battaglia mai realizzato nella chiesa cittadina. Nelle altre sale del museo sono esposti in diverse teche gli oggetti reperiti sul campo della battaglia, raccolti col contributo degli abitanti di Magenta che possedevano di questi oggetti da generazioni e che ora sono stati inseriti nel contesto del museo come “patrimonio comune della città”. È inoltre presente un grande plastico che illustra il punto culminante della battaglia, l’assalto a Casa Giacobbe. Alle pareti campeggiano giornali e dipinti, in particolare una riproduzione a grandezza naturale de “La battaglia di Magenta” di Gerolamo Induno, il cui originale è conservato a Milano presso il Museo del Risorgimento. L’esposizione di Casa Giacobbe è stata realizzata grazie a risorse dell’Unione Europea, dello Stato Italiano e della Regione Lombardia che ha ammesso e finanziato l’opera attraverso un bando per la ‘tutela e la valorizzazione del patrimonio naturale e culturale’. |
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Il Museo può essere visitato gratuitamente nei seguenti giorni ed orari:
- Martedì, dalle 8.30 alle 14.00
- Sabato, dalle 14.30 alle 19.00
E´ possibile prenotare visite in altri orari, previo appuntamento telefonico
(Comune di Magenta Ufficio Cultura, tel. 02.9735223 02.9735245 02.9735248).
Il Museo può essere visitato gratuitamente nei seguenti giorni ed orari:
- Martedì, dalle 8.30 alle 14.00
- Sabato, dalle 14.30 alle 19.00
E´ possibile prenotare visite in altri orari, previo appuntamento telefonico
(Comune di Magenta Ufficio Cultura, tel. 02.9735223 02.9735245 02.9735248).